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LA ROSA DEL GIAPPONE HA MILLE VOLTI
di
Pia Pera - Foto di Daniele Cavadini (da Natural Style, aprile
2005)
GLI
IBRIDI DI CAMELIA SONO 50 MILA
E C'E' ANCHE CHE COLTIVA QUELLA DEL TE' IN LUCCHESIA
Sto
sorseggiando incuriosita una tazza di tè nero "Tre
tigri". Non so bene cosa aspettarmi,
e quasi mi stupisco di assaporare
un
aroma netto e delicato a un tempo. Tanta circospezione è
dovuta al fatto che, pur battezzato secondo un consolidato cliché
orientale, questo tè ha percorso un tragitto insolitamente
breve: la quindicina di chilometri che separano San Andrea di
Compito dalla mia casa ai piedi del Monte Pisano. Non finirò
mai di meravigliarmi di come il clima possa mostrare facce tanto
diverse entro spazi così limitati. Il tè di Lucchesia
cresce su una collina che, quanto a umidità e rigoglio,
non ha nulla da
invidiare ai più verdi pendii d'Oriente. Mentre, dalle
mie parti, l'aridità è talvolta tale da credersi
in Grecia. L'idea di tentare in Italia la produzione del tè
è di Guido Cattolica, erede di Angelo Borrini che
nell'Ottocento tenne a battesimo Oscar e Ida Borrini, due splendide
cultivar di Camellia japonica, la prima a fiore doppio
bianco striato e sfumato di rosa, la seconda a fiore doppio
scarlatto macchiato di bianco. Cattolica si è occupato
a lungo del vivaio di famiglia, un'erta scarpata a terrazze
sovrastata da una camelia secolare e dai blocchi squadrati dell'antica
chiesa. Fino al giorno in cui si è innamorato di Camellia
sinensis, l'arbusto dalle cui foglie viene estratto il tè
e che, tramanda una leggenda, fu "fatto nascere" da
Ta-Mo, ovvero da Bodhidarma, arrivato nel Sesto secolo dall'India
in Cina per
farvi conoscere il buddhismo. Capitò a Bodhidarma di
addormentarsi mentre meditava; si tagliò allora le palpebre
in modo da non assopirsi più. Sennonché dalle
palpebre gettate a terra nacque la prima Camellia sinensis,
e con questa il tè, ovvero un rimedio meno cruento alla
sonnolenza che insidia il praticante durante le lunghe ore di
meditazione.
Gli
inglesi apprezzarono il tè per lo stesso motivo. Anche
se, pragmatici e meno spirituali, se ne
appassionarono perché incrementava l'efficienza.
Eravamo nel pieno di una rivoluzione industriale che, al dire
di Alan e Iris Macfarlane (La straordinaria storia del tè,
Laterza), non avrebbe avuto la stessa riuscita senza questa
sorta di droga minore verso cui gli inglesi svilupparono una
dipendenza dalle conseguenze incalcolabili. Basti considerare
che, con la Guerra dell'Oppio (1839-1842), l'Inghilterra impediva
alla Cina, colpevole di esigere il giusto prezzo per una bevanda
di cui nessun inglese sapeva ormai fare a meno, di proteggersi
dalla terribile droga dell'oppio prodotto dagli inglesi a costo
zero in India.
Quanto all'arrivo nei nostri giardini della "rosa del
Giappone", come chiamavano un tempo la Camellia
japonica, si tratta
anche qui di un capitolo della complessa storia della lotta
per il controllo del tè. Come raccontano Angelo Lippi
e Guido Cattolica in un delizioso piccolo libro che ci dice
tutto quello che abbiamo bisogno di sapere sulle numerose varietà
di questa pianta orientale (Camelie, che passione! Grafica
Pisana), la camelia ornamentale è arrivata nei nostri
giardini per un felice inganno. Da tempo inglesi e olandesi
cercavano il modo di aggirare il divieto posto dalla Cina all'esportazione
della piante del tè. Finché un giardiniere cinese
ne consegnò alcune piante a un mercante, Carl Gustav
Eckbert, che nel 1763 le regalò a Linneo, lo scienziato
di Upsala cui dobbiamo l'attuale sistema di classificazione
botanica. In breve ci si rese conto che il giardiniere non aveva
tradito più che tanto la sua patria: le piantine da lui
trafugate non erano di Camelia sinensis, ma di C.
japonica, ovvero della camelia da fiore. Motivo di grande
stupore fu rendersi conto che la pianta, pur provenendo dalla
fascia tropicale, da un areale che dalle pendici dell'Himalaya
si estende fino alla Thailandia, la Cina e il Giappone, mostrava
una grandissima resistenza al freddo, al punto di trovarsi benissimo
in Inghilterra.
Da lì ne arrivò il primo esemplare in Italia,
nel giardino di Maria Carolina d'Austria nella Reggia di Caserta,
grazie a una
cara amica della regina: Emma Lyon, allora moglie dell'ambasciatore
Lord Hamilton e già amante dell'ammiraglio Orazio Nelson.
Era il 1793. L'anno dopo anche Firenze e Milano poterono vantare
le loro prime camelie: nasceva così la cameliomania ottocentesca.
La pianta appassionava i botanici anche per la facilità
con cui si ibridava, permettendo di ottenerne a fiori semplici
o doppi, a forma di anemone o di peonia, di stella o di spirale,
in tutte le sfumature di colore dal bianco al rosso, in una
varietà di dimensioni che dalla miniatura arrivava al
molto grande, addirittura in disgiunzioni cromatiche: listature,
screziature, spruzzature, macchie, marmorizzazioni. Non importa
conoscere l'arte combinatoria per capire come, miscelando insieme
queste possibilità, si sia arrivati a un numero da capogiro
di ibridi: 50mila circa per la sola Camellia japonica,
una delle 200 specie accertate. Come se non bastasse, fra le
camelie si osserva il cosiddetto sporting, un fenomeno per cui
uno stesso individuo può produrre fiori diversi da un
ramo all'altro. Nel proliferare di cultivar, non c'era villa
nobiliare che non vantasse la sua, battezzata con un nome che
desse lustro al casato. Vedevano così la luce Contessa
Lavinia Maggi, Marchesa Teresa d'Ambra, Principessa Baciocchi.
.
Nel Novecento il fiore era ormai passato di moda: per quel suo
fogliame lucido e coriaceo che le conferiva un aspetto maestoso
e un po' rigido, per le fioriture vistose ma insapori.
Le
fortune del genere si risollevarono con l'importazione, a partire
da fine Ottocento, di una varietà sino allora sconosciuta,
la Camellia sasanqua, che fiorisce da ottobre a gennaio,
è meno resistente al freddo, motivo per cui non gode
di popolarità nel Nord Europa, ma ha una caratteristica
che la rende preziosa e di gran lunga preferibile alle altre:
una dolcissima fragranza d'Oriente. Fra l'altro, con le sue
foglie si prepara una bevanda molto simile al tè ma di
qualità inferiore: in giapponese sazankwa significa difatti
"fiore del tè di montagna". Dopo questa prima
camelia fragrante, ne sono state scoperte altre che hanno emancipato
il genere dalla nomea di fiore frigido: come la C. lutchuensis
delle isole di Liu Kiu, altissima e dal profumo di giunchiglia,
la cinese C. pitardii, la C. oleifera dai bianchi
fiori autunnali e il profumo di gelsomino, che hanno a loro
volta generato interessanti varietà, come C. hiemalis
che fiorisce d'autunno, adatta alla coltura in vaso.
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Non
dimentichiamo poi le Higo, le cosiddette "camelie
dei samurai", meravigliose corolle semplici raccolte
intorno a un glorioso ciuffo di stami dorati, nate dall'incrocio
fra C. japonica e C. rusticana. Con la nuova
offerta, si riaccendeva anche l'interesse. Nel 1962 veniva
istituita negli Stati Uniti la International Camellia
Society, tre anni dopo ne veniva fondata a Cannero Riviera
la sezione italiana, la Società Italiana della
Camelia, cui faceva seguito nel corso degli anni un proliferare
di mostre e convegni.
Al punto che per alcune camelie minacciate d'estinzione
nel Paese d'origine si è pensato di spedirle da
noi alla stregua di rifugiati.
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E
capitato con una rarissima Nikko che Franco Ghirardi, noto collezionista
di Higo, si è visto affidare da un vecchissimo giardiniere
giapponese rattristato dalla mancanza di premure in patria per
quel bellissimo fiore. Guido Cattolica invece ha assicurato
una discendenza agli unici semi sopravvissuti di una camelia
di cui nella vallata di Hin-Shin prosperava un'intera foresta,
incendiata col napalm durante la guerra del Vietnam. È
andata così: un certo signor Nguyen, informato dell'attacco
imminente dei B-52, era corso a mettere in salvo una manciata
di semi della sua amata camelia. Appena in tempo: un attimo
dopo l'intera vallata era in fiamme. Nguyen riuscì a
fare avere i semi a Cattolica, che ne interrò dieci.
Dopo 90 giorni d'attesa scorse i primi segni di vita. Alla comparsa
della terza foglia, quella che indica il passaggio dalla delicata
prima radice fittonante a un apparato radicale fascicolato,
passò al trapianto: è sopravvissuta una sola piantina,
battezzata "Bamby" forse per scongiurarne la gracilità
infantile. Fiorisce intorno a Natale ed è diversa da
qualsiasi camelia conosciuta per le foglie, particolarmente
sottili, e il fiore di dimensioni miniatura a forma di anemone,
cinque petali rossi intorno a uno splendido cuscino di petaloidi
fortemente rinserrati, con effetto di ricamo a nido d'ape, come
in certi splendidi tessuti orientali.
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COSI' LE FAI VIVERE MEGLIO
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1.
È una pianta acidofila e vuole terreni con pH compreso
fra 5.5 e 6.5. meglio se di origine vulcanica, con presenza
di leucite (metasilicato di potassio e alluminio). Va
pacciamata con foglie secche di altre piante perché
non sintetizza da sola la tiamina (vit. B1).
2. Quando si mette a dimora una camelia, occorre scavare
una buca profonda un metro e larga altrettanto, sistemare
sul fondo un buon drenaggio (ramaglie e aghi di pino per
assicurare l'acidità del terreno). Mescolare torba
al terriccio con cui sarà riempita la fossa.
3. Le cultivar che hanno troppe gemme da fiore, cosi grosse
da sembrare boccioli, vanno aiutate togliendo le gemme
da fiore in eccesso prima che diventino troppo grosse
e la pianta ci investa energia. Si potano e rinvasano
a primavera dopo la fioritura.
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- Camelie
che passione! di Angelo Lippi, Guido Cattolica,
La Grafica Pisana, 0587.488106
- Le
sue camelie di Piero Caneti Velletri, ed. Il Narvalo,
Velletri, 1999
- Antiche
camelie del Lago Maggiore di Piero Hillebrand, Gianbattista
Bertolazzi, Alberti libraio editore, 2003
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- Camelie
dell'Ottocento in Italia di Guido Cattolica, Angelo
Lippi, Emilio Tomei Pacini editore, Pisa
- Higo
camellia. Un fiore per il terzo millennio di Franco
Ghirardi, Maria Pacini, Fazzi editore, Lucca
- La
straordinaria storia del tè di Alan e Iris
Macfarlane, Laterza
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