"Sono
profondamente pagano: con la morte finisce il brutto, ma
finisce anche
il bello. Non so quanto mi resti da vivere,
ma se dovessi rinascere, sarei orientato più verso il
parco, come sto facendo in questi anni, che verso il giardino,
di cui mi sono occupato per tanto tempo. Mi interessano gli
alberi, mentre per anni ho pensato a fiori e cespugli, alla
decorazione insomma. E però giusto che i singoli creino
il loro giardino per un rapporto di continuità con
la natura.
Ai miei studenti oggi cerco di far capire che gli alberi, con
i loro piedi vegetali, affondano negli strati della terra e
che nei vuoti della loro chioma, da sempre, la fantasia e la
tradizione pagana hanno immaginato satiri, ninfe, elfi."
Il massimo della concretezza dunque e nello stesso tempo la
libertà dell'immaginazione. Sono alcuni brani di una
recentissima conversazione con Ippolito Pizzetti che non
sentivo da tempo, e che ho ritrovato, come sempre, pronto a
fare sintesi trasversali che incuriosiscono.
Sono le parole di un ottuagenario pieno di curiosità,
il letterato Pizzetti, da mezzo secolo in prestito all'architettura
del paesaggio.
Il curriculum è a dir poco strabiliante, suddiviso,
come si deve, tra informazioni generali e categorie specifiche:
attività accademica, pubblicazioni, concorsi, studi,
progetti, collaborazioni, premi, che chiamerei più propriamente
onorificenze, elencate per ultime. Ho scoperto così che
nel 2002 è stato insignito del Premio Porcinai
alla carriera; nel 2004 ha ricevuto la Laurea honoris causa
in Architettura dall'università di Ferrara;
nel 2005 ha ricevuto la Medaglia d'oro al valore culturale
dal Presidente della Repubblica, restando però sé stesso,
pensatore dall'aspetto semplice e alla mano, che va in
giro con la sua bisaccia, quasi un viandante di altri tempi.
Figlio di lldebrando Pizzetti (1880-1968), fin da piccolo ha
vissuto in un ambiente culturalmente stimolante, permeato
di cultura tedesca: scoprendo con le istitutrici i personaggi
del bosco e, più grande, leggendo in lingua originale
i molti autori di fine secolo che, come Goethe, davano al paesaggio,
alla sua descrizione e all'atmosfera che ne deriva, un ruolo
di rilievo, un'importanza fondamentale.
Si è laureato comunque in Letteratura Italiana con una
tesi su Cesare Pavese e nel volgere di pochi anni ha cambiato
campo di attività, cominciando a progettare giardini.
Alla conoscenza delle piante lo aveva inizialmente avvicinato
il padre musicista, ma erano le piante orticole, e Ippolito
si era reso presto conto di essere interessato soprattutto
a quelle ornamentali.
Da allora, è la metà degli anni Cinquanta, è tutto
un procedere. In un periodo in cui in Italia cominciava
il benessere, è stato il primo a tenere rubriche
sul tema del giardino, su giornali e riviste, a fondare collane:
l'Ornitorinco con Rizzoli, Aritroso con Arcana, il Corvo e
la Colomba con Franco Muzzio, attraverso le quali ha fatto
conoscere autori, temi, argomenti sconosciuti al grande
pubblico.
Dal 1974, per dieci anni, con la rubrica "Pollice verde" sulle
pagine dell'Espresso, ha raccontato le vicissitudini delle
piante del suo terrazzo romano. C'erano quelle che lo ricompensavano
delle fatiche con generose fioriture, e quelle invece che non
c'era verso progredissero. Cercava di capirne i motivi, sperimentava
gli accostamenti, ma ogni articolo era uno spunto per parlare
anche d'altro, un accenno alla musica, di cui è profondo
conoscitore ("ma solo fino ai primi dodecafonici",
sottolinea), il richiamo a un autore e a un'atmosfera
particolare.
Da paesaggista o architetto di giardini, ha sempre ritenuto
importante la conoscenza profonda delle piante, dei caratteri
che contraddistinguono ciascuna specie, delle esigenze colturali,
ma con semplici rudimenti di botanica, che è un'altra
cosa e ben diversa.
Sempre dal curriculum, leggo che ha vinto, tra il 1984 e il
1998, dieci concorsi di progettazione, ha ottenuto un secondo
premio e due menzioni speciali, su temi che vanno dal Parco
dell'ex-Manifattura Tabacchi a Bologna, alla Bicocca a Milano,
al parco pubblico di Secondigliano a Napoli, alla piazza per
il Foro Italico a Roma, all'ampliamento del cimitero di Rho,
al restauro dei giardini della reggia di Venaria Reale, vicino
a Torino. Temi complessi e variegati che ha affrontato con
disinvoltura, attingendo non solo all'esperienza pratica
di una vita, ma soprattutto alla sua vastissima cultura, dando
un contributo prezioso agli architetti con cui ha condiviso
queste avventure. Occorrerebbe troppo spazio per illustrarli,
seppure brevemente, per cui ritorno al suo modo di concepire
il giardino e ai suoi più recenti pensieri sul parco.
Pizzetti ha sempre cercato nell'andamento del luogo, nella
presenza di una vegetazione originale, la chiave con la
quale operare. Ha cercato di realizzare giardini come
spettacolo continuamente in evoluzione, in quattro parti,
o se vogliamo in quattro atti, che convergono l'una verso
l'altra: primavera, estate, autunno, inverno, dove i protagonisti,
cioè le piante, devono avere un legame con quelle fuori
il giardino. Ecco le sue radici di uomo di teatro da una
parte e la conoscenza del giardino cinese dall'altro.
Ha sempre operato con questo principio, cozzando però poi
con il fatto che la vegetazione originaria in Italia è quasi
del tutto scomparsa. Ma con questa sua propensione per le piante
originali di un luogo, non vuole essere confuso con un esasperato
ambientalista: occorre anzi lasciare quelle libertà di
inserimento eccezionale di varietà esotiche. Perché per
tradizione il giardino è anche sperimentazione. Il giardino
tuttavia è passato in secondo piano nei suoi interessi.
Sono gli alberi adesso che dominano i suoi pensieri. Invita
a piantare di nuovo, nei giardini, e nei parchi pubblici, che
spesso sono la brutta copia dei giardini privati, gli
alberi spoglianti che caratterizzavano il paesaggio italiano:
querce, frassini, carpini, tigli, aceri campestri, e che
sono quasi scomparsi, sostituiti da anonime e inalterabili
conifere nei giardini e dall'agricoltura intensiva. Vorrebbe
creare parchi che possano durare come la vita delle piante,
anche tre-quattro-cento anni, piantandoli ad adeguata
distanza l'uno dall'altro, valutando i pieni e i vuoti,
l'ombra e il sole. Parchi da godere, con gli alberi nei prati
e la gente, rispettosa, ma a camminarvi sotto, a sedersi sull'erba,
a immaginare, tra le fronde, l'apparire di un elfo.