Ciao
Ippolito e grazie. Grazie a te, che ci hai raccontato che
le piante
sono parole. E non le parole degli altri, ma
della vita di ognuno di noi. Parole che hai insegnato a saper
conoscere nel fruscio di ogni sillaba, per poterne valutare
la voce, che varia a seconda di come le accosti tra loro: del
racconto che ne fai. Parole per imparare a scrivere lo sguardo,
ché quello è il principio di ogni relazione
e quindi di ogni giardino. Parole con cui hai insegnato a comporre
storie,
in tempi in cui le parole-piante, parevano essere adoperate
tutt'al più come interiezioni. Parole del racconto della
vita di tutti i giorni qual è quella che ognuno di noi
conosce: senza esclusione di aggettivi e prima di ogni giudizio.
Ippolito
Pizzetti, che detestava l'estate, è morto il
giorno di ferragosto quando la «città è vuota» quando «il
vento estivo pomeridiano mi scompiglia e asciuga le foglie
delle Ipomee, si beve tutta l'acqua, soffia e fischia come
un felino in sogno», «quando i canarini se ne stanno
zitti; non cantano più i merli; non l'usignolo. Gli
unici che rimangono sono i cani, i cani eterni, i cani stigi,
l'allocco, la civetta». «Io non so perché,
- si chiedeva - l'estate mi uccide: perché sotto il
Leone tutto è fermo e nulla muta», tanto che nell'unica
preghiera mai formulata, chiedeva: «Ma ti prego, Agosto,
un altro anno non tornare, vattene-emigra lontano, vola in
Grecia».
E’ morto - e non è mancato, e non si è spento,
che sono parole che non avrebbe mai usato per se stesso - avendo
vicino Andreola e Oliva, figure continuamente evocate nella
lunga elegia che fu la sua vita. Una vita in cui le sue donne,
i suoi amici, la sua casa, i suoi tantissimi gatti, i suoi
cani - e in particolare Notte - diventavano le parole proprie
delle molte edizioni di una sola autobiografia.
Tutto passa attraverso il suo vaglio. L'opera è lui.
Benché affermasse che scrivere gli desse meno soddisfazioni
e meno piacere del fare un giardino, senza il suo essere così vero
scrittore, senza la sua capacità di scrittore e di poeta
di connettere e di porgerti ogni cosa inerente al mondo delle
piante, degli animali, dei giardini, del paesaggio come lettera
diretta al tuo cuore, alla tua mente, alla tua pelle, al tuo
consenso, alla tua ribellione, nel nostro Paese saremmo ancora
lontani dalle scelte delle categorie estetiche da attribuire
alla fisionomia dello spazio esterno dell'abitare.
Non saremmo stati indotti a dare valore al molto vicino, né curiosità per
l'ignoto, l'altro, lo sconosciuto, il differente o il molto
più colto. Tra gli utensili usati da Ippolito per addestrarci,
c'è innanzitutto la rubrica «Pollice verde»,
tenuta per anni all'Espresso. Poi la pubblicazione del Libro
dei fiori, quella di Piccoli giardini, tutto il sapere raccolto
nella collana «L'ornitorinco» da lui diretta per
Rizzoli, gli autori pubblicati nella collana «il corvo
e la colomba» per Muzio editore, e i più recenti
'Robinson in città', la garzantina 'Fiori e giardino'.
Molto di sé ha dato come docente nelle Università di
Venezia, Ferrara, Roma, in cui metteva a disposizione la sua
esperienza di paesaggista che aveva collaborato con Quaroni,
Valle, Gregotti e via dicendo. Ma più che alla sua opera,
si voleva bene a lui. Direbbe Pellegrina.