E’ morto
a Roma il paesaggista e scrittore
17
agosto 2007)
La
laurea in architettura l'ha presa solo nel 2004. Honoris
causa. Ippolito Pizzetti, il più illustre fra i progettisti
di giardini, disegnatore di forme e di profili paesaggistici,
oltreché botanico, in realtà si era laureato
in Letteratura italiana con Natalino Sapegno, anno accademico
1950. Argomento: Cesare Pavese. E la formazione umanistica
ha sempre condizionato il suo sguardo sulla natura.
Pizzetti è morto ieri a Roma. Aveva ottantun anni. «Sono
diventato naturalista quasi per caso», ha raccontato
una volta. «Come Vita Sackville-West», diceva.
Il suo sogno era quello fin da quand'era bambino, ma con il
passare degli anni nella sua vita è comparsa la letteratura,
sono apparsi Goethe e Stifter, Lawrence e Thomas Hardy. «Non
mi rendevo conto che diventavo un paesaggista leggendo 'Etruscan
places' di Lawrence oppure 'Nachsommer' di Stifter».
Pizzetti è stato un cultore del paesaggio come luogo
al quale si accede da molti punti d'osservazione, ma la cui
fisionomia mescola le competenze, scioglie le discipline che
rischiano, se fossilizzate, di sezionarlo a seconda se chi
lo percepisce è un esperto di fiori, di architettura
o di estetica. È stato il primo in Italia a ritagliare
uno spazio specifico, dal punto di vista culturale, per la
cura, la manutenzione e il restauro del verde. Pizzetti è stato
insegnante universitario (prima a Roma, Venezia, Palermo, ora
a Ferrara) e autore di saggi (Il libro dei fiori del 1968,
diventato poi una Garzantina nel 1998, Piccoli giardini, Robinson
in città. Vita privata di un giardiniere matto).
Gran
parte della sua popolarità è legata alla
collaborazione a giornali e riviste (dal 1975 al 1985 ha curato
la rubrica "Pollice verde" sull'Espresso, ma ha scritto
anche per il Corriere della Sera, per La Stampa e molto per
Repubblica, diventando divulgatore in un senso pieno del termine.
Infine è stato progettista, da solo e con celebri architetti:
fra gli altri, Ludovico Quaroni, Giancarlo De Carlo, Gino Valle,
Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino.
In tutte queste occasioni ha saputo offrire di un paesaggio
e di un giardino un'immagine unitaria, un assetto definito
nei suoi aspetti fisici e compositivi. Di essi ha fornito la
narrazione viva, scrutandoli nella loro storia, nella storia
dei loro elementi, nelle relazioni che intessono con il contesto.
Nel paese in cui il cemento avanza con andatura militaresca,
Pizzetti non ha fatto mancare la sua voce quando si è trattato
di difendere i diritti del verde - il verde inteso sia nella
sua componente più naturale che in quella di artificio.
E stato lui, ad esempio, a denunciare insieme ad altri la distruzione
del patrimonio di ulivi secolari in Puglia.
Era nato a Milano, figlio di Ildebrando, musicista di grande
notorietà durante il fascismo, operista e organizzatore
culturale. Ma ha vissuto quasi sempre a Roma. Dopo la laurea,
si è impegnato come traduttore. Si racconta sia stato
Pietro Citati, un giorno, verso la metà degli anni
Sessanta, a chiedergli un parere su un libro di orticoltura
che stava per essere pubblicato da Garzanti. Pizzetti lo
giudicò noiosissimo “Perché non lo scrivi
tu?”. Nacque così Il Libro dei fiori, seguito
dalla collaborazione
all 'Espresso.
Negli ultimi anni Pizzetti abitava fra la Cassia e Corso Francia,
in una palazzina con un grande terrazzo esposto a mezzogiorno.
Un giardino può vivere anche sul terrazzo di un quartiere
residenziale, teorizzava. Perché il giardino è l'espressione
di una poetica. E questa può realizzarsi ovunque. Ma
il suo paesaggio ideale era un paesaggio del Nord, ha detto
una volta in una intervista. «Penso alla quercia e all'orniello,
che sono le piante del Nord, come quelle del Sud sono l'ulivo,
la sughera e il carrubo». Aveva in mente un bosco profondo,
ormai scomparso.
Nelle
sue fibre si agitava una vena polemica che si condensava
in una
scrittura asciutta e colta, tagliente e argomentata. «È assurdo»,
diceva, «ma in Italia i giardini non hanno alcun rapporto
con le piante del luogo. I parchi pubblici, in Emilia, sono
pieni di conifere. Le ha volute la moda, il gusto dell'altro,
il rifiuto di piante che sentissero le stagioni». Cercava
di bandire i luoghi comuni. Detestava i boschi costruiti, diceva,
dalla forestale, da improvvisati botanici "che distruggevano
il paesaggio delle coste piantando forsennatamente eucalipti».
Un'avversione, quella per gli eucalipti, che faceva il paio
con quella per le ossessioni geometriche. «Fin dall'infanzia
ho avuto un profondo orrore per la geometria», e ciò lo
rendeva diffidente verso il giardino all'italiana. Il giardino
era ai suoi occhi come l'otium dei latini, il luogo di un piacere
privato, un piacere che si esaltava nella cultura araba perché si
nutriva di odori e di tatto. «Invece nella tradizione
cattolica un giardino può essere bellissimo, ma resta
un luogo di peccato, come quello di Klingsor, nel Parsifal».
Fino a che non gli hanno dato la laurea honoris causa era un
paesaggista non architetto. Non la sentiva come una diminuzione. «I
giardini io non li disegno, io vado sul luogo e decido come
mettere le piante, poi magari faccio anche fare un disegno:
ma per me è molto più importante conficcare dei
bastoncini nel terreno e dire: qui ci va questo, qui quest'altro».