Elementi per comprendere
l’estetica dei giardini cinesi

 

Tratto dal libro "Les Jardins - Paysagistes - Jardiniers - Poètes"
di
Michel Baridon
Fotografie tratte dal libro "
Arte cinese" di Christine Kontler
Traduzione e presentazione di
Mariangela Barbiero

 

 

"Les Jardins" è uscito nel 1991 e non mi pare ne siano state fatte traduzioni in altre lingue. È un libro interessante dalla prima all'ultima pagina (circa 1200...), ça va sans dire, ma quello che mi ha spinto a tradurre il capitolo sull'estetica cinese è che le puntuali considerazioni di Michel Baridon, che la mette in contrapposizione con l'estetica rinascimentale e quella barocca nell'arte dei giardini occidentali, mi hanno aperto nuovi e meno superficiali orizzonti. Che il giardino all'inglese sia in debito tanto alla pittura paesaggistica europea quanto all'arte dei giardini cinesi, sapevamcelo, ma...

Ecco dunque il capitolo che ha catturato la mia attenzione.

 

 

 

Elementi per un'estetica

 

 

 

Allo scopo di sbrogliare la matassa infinitamente annodata e riannodata di un’estetica, occorre a volte osare lanciare una sonda al centro del labirinto. Per non mancare il colpo ci si può armare di “sottigliezza”, nel senso che il "manuale di pittura del giardino non più grosso di un grano di mostarda" dà a questo termine a proposito delle figure nella pittura del paesaggio.
Occorre che i personaggi senza occhi siano come se guardassero; che i personaggi senza orecchie siano come se ascoltassero. Ciò si esprime con uno o due colpi di pennello; si abbandonano i numerosi dettagli, si coglie la semplicità più estrema; allora il gusto naturale è intatto. Ci sono cose che non si possono esprimere con centinaia o decine di colpi di pennello e qui, con uno o due colpi di pennello, subitamente ci si arriva: è ciò che si chiama la sottigliezza.
Se occorresse dare solo due colpi di pennello per tracciare l’immagine di un giardino cinese, perché non ricordare l’importanza che dà alla superficie dell’acqua e alla pietra eretta? L’acqua liscia, piatta, mobile, morbida, docile alla pesantezza. La roccia forata appuntita fissata nel momento preciso in cui la sua massa s’innalza al di sopra del suolo e si proietta in una forma. Si ritroverebbe là il nome stesso della pittura di paesaggio: shan shui, le colline e le acque; si ritroverebbero anche gli archetipi di cui essa si è servita ispirandosi ai rilievi carsici così giustamente ammirati nella regione di Gui Lin in cui i pan di zucchero sembrano zampillare dal fiume per andare a perdersi nella bruma. Ci si ritroverebbe anche l’idea che in ogni epoca in Cina fare un giardino era per prima cosa scavare la terra per mettervi l’acqua e servirsi della terra di risulta per fare una montagna.
Queste due rappresentazioni dei modi di esistenza della materia si trovano nella cultura filosofica e nella scienza cinesi.
Non è facile trasportarsi col pensiero in un mondo legato a una tradizione lunga, indipendente e trasmessa tramite un linguaggio i cui stessi principi non sono quelli dell’Occidente. Una lingua che si disegna scrivendo. Ma poiché le forme del giardino cinese ci toccano e agiscono sul nostro senso estetico, noi siamo tenuti a spiegarci, per quanto imperfettamente, l’attrazione che esse esercitano su di noi. Il metodo di Marcel Granet, che consisteva nel ricostituire il mondo mentale dei cinesi mediante traduzioni “a mezza strada” tra due lingue, è senza dubbio il migliore perché provoca “un effetto di straniamento” che accresce la riorganizzazione poetica del francese.
La traduzione parziale dello Yuanye (N.d.T.: Trattato del giardino, apparso nel 1631), che noi dobbiamo a Che Bing Chiu, lascia volontariamente sussistere tutte le difficoltà d’approccio che l’occidentale deve affrontare per penetrare in un universo poetico sottile dove s’incrociano descrizioni e allusioni, sensazioni e illusioni. Ma tutte le vie devono essere esplorate per apprezzare le grandi creazioni del giardino cinese, e gli altri testi che vengono dati qui sotto (cfr. Les Jardins di Michel Baridon) possono ispirarne una forma di comprensione più mediata.
Ma per servir d’introduzione, sembra possibile abbozzare un approccio all’estetica dei giardini tramite il pensiero filosofico e religioso e tramite la costruzione del mondo come ne poneva le basi la scienza o ciò che ne faceva le veci. Da questo punto di vista, la storia delle culture dominanti alla corte imperiale, le lotte e i compromessi tra le tradizioni confuciana, taoista e buddista hanno segnato la storia culturale di tutto un continente a partire dal V secolo a.C. Queste tre tradizioni appaiono in effetti in luoghi differenti ma quasi contemporaneamente.
Il confucianesimo, per esempio, era ancor più importante per il fatto che ispirava largamente la vita intellettuale dei letterati su cui poggiava la continuità di uno stato altamente centralizzato. È spesso definito come una filosofia piuttosto che una religione perché mette l’accento sui doveri dell’uomo nella società. Senza, non sarebbe stato possibile né il reclutamento delle élite attraverso gli esami di stato né il raffinamento della vita sociale nella Cina classica, che avevano dato all’Impero Celeste lo splendore che Marco Polo aveva tanto ammirato. L’unione di cultura e di urbanità che, secondo Confucio, fa la nobiltà dell’uomo non implica necessariamente un contatto continuo con la natura. I Dialoghi di Confucio vi fanno raramente riferimento e non sempre in maniera favorevole, come si può vedere in questo passaggio del capitolo 13.

... Phan Tich’e voleva imparare l’agricoltura. Il Saggio disse: “Un vecchio contadino t’insegnerà questo mestiere meglio di me”. Phan Tich’e voleva imparare l’orticoltura. Il Saggio disse: “Un vecchio giardiniere t’insegnerà meglio questo mestiere”. Quando Phan Tich’e si ritirò, il Saggio disse: “Che mente ristretta! Non sa che se i capi sono devoti alla tradizione, il popolo non oserà essere irrispettoso; se i capi amano la giustizia, il popolo non oserà contrastarli; se i capi sono onesti e fedeli, il popolo agirà onestamente. Se tale è la loro condotta, le folle gli andranno dietro dai quattro angoli del mondo portando i bambini sulle spalle. Che bisogno ha egli di apprendere l’agricoltura?”...

Gli imperatori la pensavano diversamente poiché la cerimonia del lavoro tanto ammirata dai fisiocratici francesi faceva parte del rituale politico-religioso della Corte. Ma ciò non cambia niente al fatto che il confucianesimo, mettendo l’accento sul civismo e la nobiltà del cuore, dava alla cultura un ruolo di primo piano ed è qui che noi ritroviamo i giardini. I Dialoghi ci insegnano che una domanda imprudente di un tizio provocò un giorno un’aspra replica di Confucio, (oggi si scrive Zigong), il saggio Kong.
Tseu-tch’eng disse: “Un uomo nobile di per sé è una materia. Ha bisogno di essere ornato dalla cultura?” e Confucio rispose: ”Peccato che voi abbiate così descritto l’uomo nobile. Un tiro a quattro cavalli non acchiapperà una sillaba una volta lanciata. La cultura vale tanto quanto questa materia e la materia tanto quanto la cultura. Togliete le strisce dalla pelle della tigre, essa varrà quanto una pelle di cane o di pecora.”

I giardini cinesi sono le strisce della pelle della tigre perché essi fanno posto allo studio. Il più modesto accoglie sempre un padiglione dove è bello meditare e leggere. Quelli di Qianlong (Antico Palazzo d'Estate) a Chengde sono già stati evocati (N.d.T.: in un precedente capitolo di Les Jardins). Quelli dei letterati raggiungono un elevato grado di raffinatezza nell’arte di mescolare la natura alla vita intellettuale. Si trova per esempio nel Wang Shi Yuan a Suzhou un “Padiglione per guardare i pini e gustare la pittura”, un “Padiglione dell’arrivo della Luna e dell’arrivo del Vento”, “Camera del liuto”, “Sala dei profumi mescolati”, “Sala di ricevimento” dove ci si riunisce tra amici. I luoghi erano propizi alla contemplazione della natura, agli scambi di impressioni e a capriole dello spirito, soprattutto quando si coglieva il passaggio delle coppe di vino tiepido che dei tapis-roulant sinuosi portavano fino ai bevitori. Forse si dirà che tanto epicureismo non era conciliabile con i doveri degli alti funzionari che costruivano giardini come questi. Ma non è questo che c’intriga di più, perché i doveri di una carica, anche molto alta, non hanno mai impedito ai politici di sapersi rilassare. Ciò che c’è di più misterioso per i nostri spiriti occidentali è che l’aspetto ameno dei giardini cinesi più raffinati assomiglia abbastanza al sorriso misterioso che si vede sul viso di Buddha. Il sorriso non esclude la profondità, la tensione: esprime la vera forza intellettuale che è quella di cercare la difficoltà e di vincerla agevolmente. Qui, la difficoltà, è evidentemente la rappresentazione della natura da parte dell’uomo che non ne è che una particella, ma pensante e capace di dare un’immagine. Questo è l’altro aspetto del giardino cinese, cioè il diletto di esprimere il legame dell’uomo con la natura e di coglierne tutto il mistero tramite la poesia delle cose. È con il taoismo, tramite le sue formule spesso volutamente contradditorie, (p.es.: “colui che sa non parla e colui che parla non sa”) che si può tentare di situare le attitudini mentali dell’artista davanti a un paesaggio o di un intellettuale in meditazione davanti a una venerabile pietra traforata dalle acque. Si dirà, come Reischauer e Fairbank, autori della "Storia dell'Asia orientale": “Lo stesso uomo era un confuciano positivista quando aveva il potere e diventava un taoista quietista quando non lo aveva più”?
Ecco. Un epigramma ben girato acchiappa sempre un po’ di verità al volo ma solamente un po’, perché sembra proprio che, nella Cina classica, l’uomo di potere fosse sovente l’uno e l’altro, mentre l’artista, lui, restava più vicino al Tao le cui formule criptiche gli servivano per tentare di mettere in parole ciò che egli aveva tanto a cuore di esprimere con inchiostro e pennello.

In effetti secondo il Taoismo la vita umana è in relazione diretta con le forze che agiscono nella natura, forze rette da due principi opposti, yin e yang. L’acqua e la pietra ne danno una rappresentazione metaforica. Laozi dice che il Tao fluisce in tutte le direzioni e fertilizza tutto al suo passaggio. L’acqua appare nel Guanzi come l’elemento flessibile, ricettivo, femminile che sposa le altre forme per conoscerle. La sua superficie è il livello che si situa all’altezza di ogni cosa ed esiste dappertutto nei minerali come negli animali e nelle piante. All’opposto c’è lo yang, il principio maschile che evoca il calore, la luce, lo slancio che si diffonde nello spazio, l’affermazione di una identità che si impone prendendo forma.
Non c’è dunque rottura tra la natura e l’uomo. Di qui l’esistenza del trasferimento tra l’apparenza delle cose e le emozioni che esse creano nel cuore di coloro che le contemplano. Ciò che diceva nel VI secolo il pittore Xie He della “risonanza” tra gli uomini e le cose sarà ripreso cinque secoli più tardi da un altro, Guo Xi, secondo cui:

"La montagna in primavera si avviluppa di una bruma che fluttua come un sogno e gli uomini sono gioiosi; in estate è all’ombra di un fogliame opulento e gli uomini sono in pace; in autunno essa è calma e serena, le foglie cadono e gli uomini hanno pensieri ombrosi."

Si pensi alla frase di Chateaubriand : “Un carattere umorale si lega alle scene dell’autunno” o a quella di Amiel : “Un paesaggio è uno stato dell’anima”.

A dire il vero bisogna passare per tutto il trascendentalismo romantico per “entrare in consonanza” con la concezione cinese del paesaggio, a condizione di sostituire all’esaltazione metafisica la tranquilla espressione del vissuto. L’arte dei giardini non è la pittura del paesaggio, ma i pittori possono evocare atteggiamenti mentali e un’atmosfera di sensibilità che ci permettono di comprendere l’una tramite l’altra. Poiché il Tao esprime la fusione degli estremi opposti (ciò che è difficile e ciò che è facile si completano, ciò che è alto e ciò che è basso si determinano l’un l’altro), è normale che il pittore possa dire riprendendo la formula chiave dei giardini: “Quando avete l’acqua presente allo spirito, allora voi potete fare delle montagne”. Allo stesso modo che l’unità del Tao non esisterebbe senza l’opposizione yin-yang, ugualmente la pittura deve riunire/disperdere, combinare verticali/orizzontali, fare che certe montagne siano “invitate” e altre “ospitate”.

Un albero o una pietra, tutti servono la montagna come loro padrone. Vi si trova ancora il principe e il ministro. Ecco perché quando Guo Xi faceva la montagna dominante egli la faceva alta e dritta, ondulata, spaziosa, spessa, eroica, energica, equilibrata e austera.

Paradosso del Tao: questa montagna così orgogliosa è vinta dall’acqua.

Le pietre sono le ossa delle montagne e le cascate sono le ossa delle pietre. Si dice che la natura dell’acqua è debole; come si potrebbe chiamarla ossa? Io rispondo: “Essa colpisce le montagne e fora le pietre; la sua forza scuote le alte montagne; non c’è niente di più forte dell’acqua”.

Se i giardini cinesi mostrano tante pietre torturate dall’acqua, se il lago Tai Hu, presso Suzhou, era così spesso oggetto di tante ricerche per trovare pietre forate dall’erosione, e se queste pietre viaggiavano fino a Pechino per fare la loro entrata nei giardini imperiali, è perché esse si offrivano alla meditazione come altrettanti testimoni dell’azione misteriosa delle forze della natura. Il foro della roccia ne è una parte attiva.

Il vuoto non è solamente lo stato supremo verso il quale si deve tendere; concepito come una sostanza esso stesso, egli si coglie all’interno di tutte le cose nel cuore stesso della loro sostanza e della loro mutazione.

Un altro tema taoista che la pittura e i giardini illustrano è quello del Qi, cioè il ritmo che è legato a ogni manifestazione della vita e al soffio/respiro. Vadime e Danielle Elisseeff (N.d.T.: coautori di diversi libri sull'arte cinese e su quella giapponese) lo definiscono come “lo spirito, l’ispirazione, il risultato che la vita ti dà e che l’artista non può raggiungere se non lasciando che il suo cuore batta al ritmo generale del mondo”.
Questo termine è talvolta tradotto con “vitalità ritmica”, oppure “soffio-spirito” e serve a esprimere l’idea che l’arte debba cogliere la natura non nelle forme che essa prende ma nella maniera di essere. Wang Wei scrive per esempio: “Fissando le nuvole dell’autunno il mio spirito prende le ali e plana. Incontrando la brezza della primavera, i miei pensieri fluiscono come una grande e potente corrente. Anche la musica degli strumenti di metallo e di pietra e l'inestimabile tesoro di giada non possono uguagliare questo piacere. Io srotolo le pitture ed esamino i documenti, comparo e distinguo le montagne e i mari. Il vento si alza dalla foresta verde e l’acqua ruggente si precipita nella corrente. Ahimè, non si possono realizzare tali pitture con i movimenti fisici delle dita e della mano ma solamente tramite lo spirito che vi entra. Tale è la natura della pittura”.

Da ciò, sempre in pittura, un criterio estetico che vede nell’arte più compiuta il criterio di cogliere il movimento sul posto, concentrandosi su un solo aspetto di una scena e lasciando il resto sfocato. Il becco dell’uccello si taglia come per un colpo di rasoio ma il suo piumaggio fluttua come una bruma cotonosa. I giardini permettono questo tipo di suggestione facendo errare sullo sfondo di un muro nudo o di una pietra verticale uno stelo sagomato o una rete di rami che portano fiori o frutti. La natura suggerisce allora le energie che la attraversano in ciò che Pierre e Suzanne Rambach chiamano “la danza cosmica”. È questa danza delle energie ritmiche che gli innumerevoli dragoni a loro modo incarnano, combinando il concavo e il convesso, il liscio e il rugoso, i colpi diretti dei loro denti e il fuoco lanciato dalle loro pericolose narici.

Quando il buddismo cominciò a diffondersi in Cina, le sue rappresentazioni della natura poterono ispirarsi a un gran numero di temi e di miti taoisti. Nella sua cosmologia una grande montagna regna sull’universo e ciò si fondeva bene nell’aura di potenza che circondava la montagna. L’idea di un paradiso dove le isole perdute nell’oceano accoglierebbero i fortunati si conciliava con il mito delle isole degli Immortali. Per un sincretismo che noi conosciamo bene, soprattutto tra l’arte del cristianesimo primitivo e quella dell’antica Roma, i mandala buddisti poterono ispirare pittori e giardinieri cinesi soprattutto nei monasteri, tentando di suggerire un’atmosfera di calma spirituale in cui si prefigurava il nirvana. Questo è ancora più evidente in Giappone.
Ma i dagobas che si innalzano qui e là nei giardini cinesi provano quanto l’influenza buddista vi fosse riconosciuta pur se, almeno in Cina, essa riguardava più la decorazione florale che le strutture. Se ne ha l’esempio in un poema in onore del fiore di loto scritto dal poeta Chou Tun-i.


Dall’inizio della dinastia Tang è stato di moda ammirare le peonie, ma il mio fiore preferito è il loto. Il loto, immacolato quando si eleva al di sopra del suo letto di fango, modesto quando si stende sull’acqua chiara, simbolo di purezza e di verità, emerge armonioso e immacolato; il suo profumo sottile si espande tutt’intorno… deve essere visto da lontano con reverenza; non bisogna profanarlo avvicinandovisi troppo. A mio parere, il crisantemo è il fiore dei solitari e della gente di cultura; la peonia è il fiore della gente di alto rango o opulenta; il fiore di loto è la dama virtuosa; è ineguagliabile. Ma dopo Tao Yuanming il crisantemo è meno ricercato e nessuno ama più di me il loto. È la peonia che ha il favore di tutti.

Il confronto di questi tre fiori non ha niente di esclusivo perché numerose sono le descrizioni di giunchiglie, malvarose, gigli, narcisi, orchidee e papaveri che si trovano nella poesia e nei trattati di orticoltura. Cyraine ne ha trovati numerosi in un manuale di pittura. Dà anche una finissima descrizione di ciò che si potrebbero chiamare gli “umori“ dei fiori, trovata in un testo del XVII secolo.

Quando essi sono al sole e i loro corpi delicati sono protetti dal vento, sono felici. Quando appaiono aver troppo bevuto o sembrano silenziosi e stanchi e si trovano nella bruma, allora si sentono tristi. Quando caricano i rami che si piegano senza riuscire a raddrizzarsi, allora è come se sognassero durante il sonno. Quando sembrano sorridere e guardarsi intorno con un luccicore negli occhi, sono usciti dal sonno. Ma se i fiori costituiscono lo charme dei giardini, essi non ne determinano la struttura. Il giardino crea il proprio spazio e quali che siano i miti religiosi o culturali a cui si ispira chi lo progetta, perché esso prenda forma si deve trovare un certo numero di soluzioni concrete al problema della rappresentazione della natura. Visibilmente, se il giardino cinese ha svolto il noto ruolo all’epoca in cui il pittoresco si è diffuso in Europa, è che esso offriva soluzioni al problema del superamento della stretta prospettiva lineare che trionfava nei giardini del Rinascimento e del Barocco che si fondava sull’ottica o sulla geometria. Questa prospettiva non fu mai messa in questione dai cinesi poiché non l’avevano mai adottata. La loro costruzione dello spazio non è mai stata fatta con riferimento a un quadro geometrico per quanto semplice fosse nel Brunelleschi e nell’Alberti. Du Halde (N.d.T.: Jean Baptiste Du Halde fu uno storico, orientalista, sinologo e gesuita francese del XVIII secolo) mostra bene che l’imperatore Kangxi aveva preso piacere a scoprire un sistema di rappresentazione che gli pareva senza dubbio semplice ed elegante. A ciò si può trovare una spiegazione in quello che dice Marcel Granet (N.d.T.: sociologo, storico delle religioni e orientalista francese della prima metà del XX secolo) sulla concezione del tempo e dello spazio nell’antica Cina:
... Il pensiero dotto o popolare obbedisce in Cina a una rappresentazione dello spazio e del tempo che non è affatto puramente empirica. Si distingue dalle impressioni di durata e di ampiezza che compongono l’esperienza individuale. È impersonale. Si impone con l’autorità di una categoria, ma tempo e spazio non appaiono ai cinesi come luoghi neutri: non devono accogliere concetti astratti.
Nessun filosofo ha sognato di concepire il tempo sotto l’aspetto di una durata monotona costituita dalla successione, secondo un movimento uniforme, di momenti qualitativamente simili. Nessuno ha trovato interesse a considerare lo spazio come una semplice superficie, risultante dalla giustapposizione di elementi omogenei, come una superficie in cui tutte le parti sarebbero sovrapponibili. Tutti preferiscono vedere nel tempo un insieme di ere, di stagioni e di epoche, e nello spazio un complesso di zone, climi e orientamenti. In ciascun orientamento la superficie si singolarizza e prende gli attributi particolari di un clima o di una zona...

Ciò che Marcel Granet intende per un orientamento è l’orientamento invernale e l’orientamento estivo per designare il punto in cui il sole sorge secondo le stagioni. Nella misura in cui un giardino crea il suo proprio spazio, si concepisce che la disposizione di pietre, stagni, bambù, gallerie viene dettata da princìpi diversi dalla messa in prospettiva occidentale, tramite geometria e ottica. Due elementi vi si aggiungono. Uno riguarda la struttura dell’insieme, l’altro la rappresentazione della natura.
Per quanto riguarda la struttura, il giardino cinese giustappone le “viste” guidando il visitatore in un percorso che gli fa intraprendere corridoi sinuosi dai muri traforati da finestre o porte da cui si intravede prima ciò che si scopre dopo. Questo percorso crea una modulazione dello spazio e del tempo perché invita ad andare avanti, a fare delle pause, sveglia interessi che possono attirare lo sguardo lateralmente nello stesso momento in cui si scopre qualcosa davanti a sé. L’impressione così creata è in rapporto diretto con la pittura del paesaggio, e ciò è confermato tra l’altro dall’invito fatto al pittore Ye Tao di Qingpu, vicino a Shangai, di venire a sistemare alberi e pietre nei giardini dell’imperatore. Uno dei più antichi maestri della pittura cinese, Wang Wei, spiega la sua percezione dello spazio in termini che aiutano a comprendere la struttura dei giardini:
"... Le apparenze fisiche si fondano su apparenze fisiche, ma lo spirito cambia ed è sempre in movimento. L’occhio si limita alla portata e ciò che vede non copre tutto. Così usando un solo piccolo pennello io disegno la vacuità infinita e impiegando la visione chiara delle mie piccole pupille (per discernere i limiti) dipingo un grande corpo. Con una linea curva rappresento le catene dei monti Song. Con una linea vagante rappresento il Fang Chang (montagna mitica). Un tratto dolce sarà sufficiente per il monte Tai Hua e alcuni punti sparsi mostreranno il naso del dragone. Per quest’ultimo le sopracciglia, la fronte e le guance evocheranno insieme un sorriso sereno e (nel caso delle montagne) la sola falesia è così lussureggiante e così sublime che sembra far nascere nuvole. Con cambiamenti e variazioni in tutte le direzioni si crea il movimento, e applicando le proporzioni e la misura, si rivela lo spirito...

Cambiamenti e variazioni in tutte le direzioni vanno alla pari con “proporzioni e misura”. Ciò è vero anche per il giardino, ma non tramite gli stessi procedimenti. Il vagabondare dell’occhio che la pittura crea, in giardino si ottiene con il vagabondare dei passi del visitatore. Si presenta come una successione di scene e offre queste scene mediante rivelazioni parziali che incitano ad andare più avanti; il muro bianco lungo il quale ci si muove è una sorta di evocazione della durata lasca del tempo nudo. In questo si evocano queste zone pallide, indistinte, questi deserti che l’occhio oltrepassa per andare da una scena all’altra sui rotoli dipinti. È uno schermo che il visitatore trasporta e vi vede sorgere immagini che a volte lo bucano e a volte lo occupano tutto intero. Queste viste in successione implicano che il mondo del giardino gli sarà accessibile se entra nella durata che i luoghi gli suggeriscono. A lui sta di scegliere la sua via, di fermarsi su tale o tal altra particolare occorrenza, tal o tal altro fiore, forse aperto dal mattino o che forse il giorno prima non aveva visto. Ma non può vedere tutto d’un colpo come nei giardini rinascimentali o barocchi.
I muri bianchi o ocra lungo i quali ci si sposta giocano allora il ruolo del vuoto, di cui parla Wan Wei. Sono traforati da finestre o conducono a porte, a padiglioni aperti, a corridoi dove l’occhio è sollecitato da ogni parte con viste che gli si offrono da più o meno lontano. Il visitatore che segue il tracciato capriccioso dei corridoi/gallerie scorge di tanto in tanto, alla giusta altezza, aperture delle dimensioni di un quadro che gli “inquadrano” una scena dall’altra parte del muro. Gli si offre così un’anteprima del paesaggio che vedrà in seguito, ma rispetto a quella del quadro questa vista è doppiamente viva: in primo luogo perché rappresenta la natura stessa e in seguito perché il visitatore ne modifica il campo visivo a seconda che egli si accosti al muro o che se ne allontani. Inoltre, la superficie di questo tableau vivant è ricoperta da una rete di linee la cui concezione segue diversi stili (scaglie di pesce, vetro frantumato, ecc.) il cui effetto è un po’ quello di una veletta che nasconde i tratti del viso giusto quel che serve per invitare l’occhio ad andare oltre. È in effetti ciò che avviene quando si arriva alla fine del corridoio/galleria per entrare nei luoghi fino a qui solo intravisti. Ci si libera allora dell’ostacolo del muro, dell’inquadratura e dei reticoli imposti e si penetra nel quadro. È la meravigliosa storia del pittore il cui paesaggio era così perfetto che vi era entrato e vi si era perduto. Così il giardino offre al visitatore comune ciò che la pittura non offre che agli artisti d’eccezione. È un modo di affermare la propria specificità tra le arti e di trovare una soluzione cinese al problema della rappresentazione, problema che è al centro dei dibattiti teorici della nostra epoca.
Ma poiché è questione di rappresentazione, segnaliamo un effetto inverso: l’imprestito di un paesaggio esterno al giardino. Il muro di cinta gioca allora il ruolo inverso del muro della galleria. Lo sguardo, passando al di sopra del muro, non scopre una vista inquadrata della natura ma un vasto paesaggio libero, fuori le mura, che viene a integrarsi col giardino. Al contrario del quadro che si ingrandisce per divenire paesaggio, è il paesaggio che si miniaturizza per divenire una parte del giardino. È un modo di dire che il giardino è la natura, ma la natura che l’arte rappresenta ha scale variabili. Gli alberi nani ne forniscono una prova supplementare, soprattutto quando si abbarbicano a fianco delle rocce miniaturizzate dove sembrano lottare contro il vuoto e contro il vento. Si è presi dalle vertigini guardandoli da vicino, ma basta fare un passo indietro perché la falesia ritorni una semplice pietra e l’albero una delicata miniatura. Il paesaggio nano si erge così a simbolo del giardino intero: l’arte modella la natura, imita e traspone e rimpicciolisce la globalità del mondo.
Noi abbordiamo qui il problema della variazione di scala e della suggestione. Su una pittura si può giocare con una sola linea per suggerire contemporaneamente la forma della montagna e la sua lontananza. Ma in un giardino in cui le cose rappresentano se stesse bisogna costringerle a fare altro dalla rappresentazione. Questo problema esiste in tutti gli stili di giardino, ma è risolto in modo originale dai giardini cinesi e giapponesi che vi pervengono usando la tradizione filosofica.
In un articolo del 1942 che è un invito a leggere il suo libro "Il mondo in piccolo", Rolf Stein cita Marcel Granet dicendo che nell’antica Cina “tutta la realtà è in sé totale, tutto nell’universo è come l’universo”. Ne deduce che un sincretismo ha potuto così operarsi tra il taoismo, che permette all’iniziato di evadere dal mondo facendosi così piccolo fino a perdersi nella natura, e il buddismo, che afferma che “l’universo intero si nasconde in un solo grano”. Questo sincretismo fornisce direttamente dei criteri estetici in questo passaggio dal Kaopan Yu-che di Tou Long che risale all’epoca Ming.

... I migliori paesaggi in scala ridotta sono quelli che si possono sistemare su un vassoio o su una tavola. Poi vengono quelli che si possono disporre in una corte. Tra gli alberi, i più vecchi ed eleganti sono per esempio i pini di T’yen Mou la cui altezza raggiunge giusto giusto un piede, con il tronco grosso come l’avambraccio e i corti aghi come punte di freccia, che si contorcono in un "movimento Ma Yuan" (pittore dell’epoca Song) inclinato e tortuoso...

La miniaturizzazione equivale allora a una presa di conoscenza duplicata da una rappresentazione della natura. L’uomo usando il suo potere ne fa l’immagine vivente del suo pensiero. È così che il paziente lavoro di tagliare radici e selezionare i rami torti per allungare la circolazione della linfa torna a rappresentare la meditazione del saggio che rallenta ogni movimento e si costringe all’immobilità per meglio penetrare la via segreta della natura.
Rolf Stein riferisce anche che l’iniziato può arrovesciare la testa affinché i suoi capelli come radici vadano verso il suolo, “egli acquisisce pose contorte come quelle degli alberi nanizzati” e, se egli rallenta la circolazione della linfa tagliando le radici, è per rallentare il movimento della vita: “la gru che danza allunga il collo; la tartaruga pure” e questi due animali simboleggiano la longevità.
Conifere, alberi fruttiferi, aceri, olmi, baniani (fichi del Bengala) miniaturizzati hanno fatto in questo modo la loro entrata nei giardini cinesi già dai primi secoli della nostra era sotto il nome di penzai o penying (“cultura su vassoio”, “scena su vassoio”). Questi paesaggi nani suggeriscono al visitatore l’esistenza di distese più grandi di quelle che occupano e in egual misura il giardino si trova sovradimensionato. Se una pietra alta 60 cm porta un pino nanizzato di 6 cm, l’immaginazione rende all’albero i suoi 6 m e fa della pietra un megalite di 60 m. Questa rappresentazione mentale dà la vertigine perché ricostituisce lo spazio reale mediante variazioni di scala. Il giardino è piccolo, la natura è infinita, ma il genio dell’uomo può competere con essa con il semplice potere della suggestione, gioca allora sull’incalcolabile (démesurable) per riprendere un termine caro a Bernard Lassus, e si serve della natura per suggerire una durata a zig-zag e uno spazio che non ha più l’omogeneità imposta dalla prospettiva lineare.
Nello spazio così disegnato appare una varietà di differenze morfologiche. Tutto sta nello scarto sempre più ampio che si è scavato tra la Cina e l’Occidente in un momento cruciale della storia delle scienze. Ned Amm cita a questo proposito lo storico cinese Hu Shi che oppone le scienze esatte in Europa alla filologia in Cina.

Quattro anni prima della nascita del Ku Yen-Wu (un filologo che ricostituiva la fonetica dell’antica poesia), Galileo trasformava l’astronomia grazie al telescopio, e Keplero pubblicava i suoi lavori su Marte nonché le sue scoperte sulle leggi che reggono il movimento dei pianeti. Mentre che Ku Yen-Wu si assorbiva nella filologia e ne costituiva la fonetica antica, Harvey aveva già pubblicato la sua grande opera sulla circolazione del sangue e Galileo i suoi due grandi libri sull’astronomia e la nuova scienza: “Dialogo sopra i due massimi sistemi”. Un anno prima che Ku Yen-Wu pubblicasse la sua opera importante "I cinque libri", Newton aveva messo a punto la teoria del calcolo infinitesimale e la sua analisi sulla luce bianca (dispersione ottica).

Il parallelismo, anche non accennando alle ricerche filologiche di un Richard Simon o ai lavori fatti in Inghilterra cinquant’anni più tardi sulla pronuncia dell’antica poesia, in effetti fa impressione. Sarebbe forse ancora più eloquente se ci situassimo cent’anni prima, all’epoca del Rinascimento, quando il grande boom della geometria e dell’ottica aveva rovinato l’antica fisica detta del riposo, per promuovere la nuova fisica detta del moto. Si sa che Einstein ha commentato non senza humour lo scarto che si è allora scavato tra la scienza cinese e la scienza occidentale: "Lo sviluppo della scienza occidentale è dovuto ai grandi avanzamenti che essa ha fatto in due campi: l’invenzione del sistema della logica formale da parte dei filosofi greci (la geometria euclidea) e nel Rinascimento la scoperta che era possibile stabilire delle relazioni causali ricorrendo a una sperimentazione sistematica. A parer mio, non c’è niente di stupefacente sul fatto che i saggi della Cina antica non abbiano fatto queste scoperte. Se dobbiamo stupirci di qualcosa è che essi abbiano fatto delle scoperte un giorno."

È allora che per il meglio o per il peggio il dotto e l’ingegnere divennero gli ausiliari diretti dell’uomo di stato, degli uomini di guerra, dei mercanti, dei banchieri e dei costruttori d’imperi. Cosa sarebbe stata Firenze, e lo stesso grande Leonardo, senza i Medici? La scienza, molla dell’espansione, divenne nel XVI secolo un perpetuo interrogarsi. In Cina, al contrario, la burocrazia celeste continuò ad assorbire tutte le energie intellettuali e, al posto di puntare dei telescopi verso le stelle per decifrare i segni matematici del grande libro dell’universo, gli astronomi della burocrazia celeste si servivano dei loro astrolabi per consigliare l’imperatore sulla programmazione del suo calendario. Era pressappoco la situazione del XIII secolo in Europa: i sapienti potevano continuare i loro lavori teorici nelle loro abbazie e corrispondere tra di loro, senza peraltro accedere al mondo della politica. Rispettati in quanto specialisti, non erano per il futuro della società più importanti di quanto lo sia oggi un grande giocatore di scacchi. Se l’Occidente ha reso il tempo e lo spazio omogenei, è per poter iscrivervi i segni matematici della meccanizzazione. Fin qua l’Occidente si era attenuto alla cosmologia aristotelica che riposava sui due principi fondamentali definiti da A.C. Crombie: 1. Il comportamento di ogni cosa è determinata dalle forme o dalla natura che definiscono qualitativamente; 2. Queste forme e questa natura costituiscono il cosmo dove sono disposte in maniera gerarchica.
Questi principi si ritrovano nella rappresentazione medievale dello spazio, la cui prospettiva non è assente ma sembra incoerente perché frammentaria. Si sente bene in questo iato la coesistenza di sottospazi, di “scene” che possiedono un’atmosfera, un centro di interesse, un ordine interno che vengono così preservati.
Che anche il giardino cinese accostasse delle “scene” non ha dunque niente di stupefacente e infatti i missionari gesuiti hanno avuto l’impressione, arrivando alla corte imperiale, che in materia di fisica vi fosse ancora molto da fare. Non è stupefacente neppure che quando il movimento scientifico europeo ha promosso al rango di scienze pilota le scienze della natura - chimica, medicina, fisiologia, storia naturale - si sia momentaneamente distolto dalle forme geometriche che non erano nella natura (cioè geometrie euclidee), ciò spiega almeno in parte la moda dei giardini cinesi del XVIII secolo. Per contrasto è veramente stupefacente che oggi la geometria stessa sia all’origine di una “rivoluzione morfologica” che porta matematici come René Thom e Benoît Mandelbrot a parlare di “primato del qualitativo” e a rifiutare la celebre formula di Galileo: “L’universo è un libro scritto nel linguaggio delle matematiche e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi e altre forme geometriche, senza le quali è umanamente impossibile comprendere una sola parola”. “Le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni” risponde Mandelbrot, e René Thom ricusa l’idea che si possa spiegare la morfogenesi mediante le stesse leggi riguardanti il movimento della materia. Questa rimessa in causa del riduzionismo geometrico mediante la geometria stessa conduce a una riabilitazione del qualitativo. Essa conduce anche a una teoria delle forme che dà agli attrattori un ruolo primordiale nella costituzione di sistemi dinamici il cui carattere individuale sussiste fino a che una catastrofe non vi metta fine. Un lago al centro di una valle agisce come un attrattore che dà al paesaggio circostante un volto progettato dal sistema dinamico delle acque. Fintanto che resta al suo posto può apparire allora come un genius loci e conduce l’osservatore a considerare la geomanzia come una parascienza la cui teorizzazione è fantasiosa ma i cui dati sono a volte verificabili.
Concepire la studio del paesaggio dal punto di vista morfologico mediante attrattori o forme frattali induce a pensare che il soffio-spirito degli artisti classici cinesi raggiunga le intuizioni creatrici degli architetti paesaggisti di oggi. La questione posta all’inizio di questo capitolo trova così la sua risposta. Le antiche civiltà dell’Estremo Oriente sono una fonte di ispirazione per i nostri giardini moderni perché suggeriscono per certi problemi formali soluzioni in cui traspare la nostra modernità.

Come per gli altri giardini, i giardini della Cina hanno relazioni con la letteratura che va dalla descrizione all’evocazione poetica e passa per i trattati di architettura e di agricoltura. La loro lunga storia è disseminata di testi documentari la cui diversità comprova la loro quadruplice vocazione. I più facilmente accessibili di questi testi sono evidentemente quelli che sono stati scritti da viaggiatori occidentali. Gettano su ciò che vedono uno sguardo che classifica e descrive, impiegando un metodo in cui noi riconosciamo i nostri modi di pensare, e invitano a fare dei confronti con ciò che dicono gli stessi cinesi.
L’ordine cronologico offre il vantaggio di dare la parola prima a questi ultimi, e numerosi sono stati quelli che si sono fatti capire nel corso dei secoli che si sono susseguiti prima che i viaggiatori occidentali apparissero in estremo oriente.
Così è ritornando al IV secolo che noi ascolteremo prima la voce di un saggio ritornato al suo paese e che riprende il tema oraziano del ritiro dal mondo. La casetta di paglia è piccola ma gli alberi del giardino sono davanti alla finestra e il rumore che sale dal paese insieme alle “lente fumate” rende al poeta la sua quietudine e la sua libertà.