FALLOPPIO & GUILANDINO
una
coppia gay illustre del '500, tumulata insieme nella Padova del
Cinquecento
di
Michele Visentin
Davvero
ha ragione l’Amleto di Shakespeare quando dice
che ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne
immagini la nostra filosofia. Forse sarebbe il caso di tenerne
conto nell’attuale infervorato dibattito sulla famiglia.
Quasi stupisce l’assenza di un dato così evidente
da risultare banale: nel corso della storia dell’umanità sono
emerse le più disparate forme di convivenza. Da sempre
la “norma” è rappresentata dalle famiglie
al plurale, mentre la famiglia mononucleare così come
la conosciamo noi oggi è nata nel XIX secolo, per precise
ragioni culturali ed economiche.
Prendiamo
Padova. Si sa che nel Cinquecento la sua Università attirava
studenti e professori da ogni angolo del continente: nelle
sue aule, nell’Orto botanico e nel Teatro anatomico – i
primi del loro genere in Europa – prendeva forma quella
rivoluzione scientifica che di lì a poco Galileo Galilei
avrebbe portato a compimento. Pochi invece sono al corrente
di una vicenda che riguarda due protagonisti di questa proto-rivoluzione:
due giovani professori che s’incontrano e decidono di
condividere casa e risorse nella buona e nella cattiva sorte,
finché morte non li separi.
Uno
di essi, GABRIELE FALLOPPIO, è passato alla storia
come autore della prima accurata descrizione dell’apparato
riproduttivo femminile: chi non ha studiato a scuola le sue “tube
di Falloppio”? Per capire il carattere rivoluzionario
di questa descrizione non dobbiamo dimenticare che dai tempi
di Aristotele il maschio veniva considerato come il principale
artefice della riproduzione: era lui che trasmetteva la vita
(la forma); la femmina tutt’al più forniva il
contenitore — tema ripreso pari pari dalla teologia cristiana,
con l’aggiunta di varie amenità sulla trasmissione
del peccato originale e sull’ovvia maggiore colpevolezza
della donna. Come stupirsi se sino ad allora si arrivava ad
ignorare persino l’esistenza di un apparato riproduttivo
femminile? Le ricerche di Falloppio innescano l’emersione
di un nuovo paradigma culturale: maschio e femmina contribuiscono
in egual misura alla trasmissione della vita.
L’altro personaggio, il prussiano Melchiorre
Wieland detto il GUILANDINO, è meno conosciuto ai non addetti
ai lavori, tanto che nemmeno Padova gli ha mai dedicato una
via. Grande naturalista e instancabile viaggiatore, è considerato
un precursore del metodo sperimentale applicato allo studio
delle piante: non a caso l’Ateneo patavino chiamerà lui
a ricoprire la prima cattedra di Botanica istituita in Europa
(1564).
I
nostri protagonisti, dicevamo, s’incontrano a Padova
verso la metà del secolo e subito scoprono di avere
molte cose in comune. Sono coetanei e sono entrambi autodidatti,
una sorta di self-made men: provenendo da famiglie povere e
alquanto disastrate non avevano potuto contare su di una formazione
regolare; ma questo evidentemente non ostacolò la loro
febbrile sete di conoscenza. Falloppio era nato a Modena trent’anni
prima. Il padre Girolamo è ricordato negli “Annali
Modenesi” per uno scherzo fatto quand’era capitano
d’armi: fece affrescare su una delle porte della città un’oscena
pittura di un homo hermafrodito (Martinozzi: 1908), pittura
che usava per ingiuriare i cittadini che passavano di là – come
dire, massa di fr...! Non era esattamente il padre che tutti
noi vorremmo avere: soldato mercenario, sicario, falsario,
viene ricordato anche per essere stato uno dei primi in Europa
a morire di sifilide, malattia arrivata allora dal Nuovo mondo.
Fu questa anche l’unica eredità che trasmise ai
piccoli Gabriele e Giulio, quest’ultimo morto all’età di
vent’anni. Gabriele fece in tempo ad ascoltare e a metabolizzare
gli innumerevoli racconti di sangue e squartamenti che papà Girolamo
gli faceva quando tornava a casa: sarà probabilmente
questo imprinting a consentirgli in seguito di conservare la
massima freddezza nell’esecuzione delle autopsie, in
condizioni d’igiene che certo possiamo immaginare.
Fu
lo zio materno Don Lorenzo Bergomozzi a prendersi cura di
quel che restava della famiglia e a provvedere a un minimo
di istruzione per Gabriele. Questo singolare religioso, gaudente
e intrigante, poteva contare su numerosi benefici li quali
ghe dete Papa Leon X per averghe cantato in camera e fato altre
cose ridicole (Lancellotti: 1861). Alla sua morte, avvenuta
manco a dirlo a causa della sifilide, lasciò questi
benefici al nipote che poté così laurearsi a
Ferrara e cominciare ad esercitare la professione di medico.
Ma un destino sinistro sembrava inscritto sullo stemma della
famiglia Falloppio, formato da tre faloppe (dicesi faloppa “il
bozzolo non condotto a perfezione per morte del baco da seta”,
e ho detto tutto!). La presenza a dir poco ingombrante della
sifilide nella sua vita familiare spingerà Gabriele,
poco incline all’araldica e ancor meno alla superstizione,
a farne oggetto di studio e a sperimentare dei metodi per evitare
il contagio: per questo egli passerà alla storia della
medicina anche come inventore dell’antenato del preservativo.
Divenuto famoso per la sua scienza e la sua erudizione, nel
1551 viene chiamato a Padova per ricoprire la Cattedra di Chirurgia
e Anatomia, dove si fa presto apprezzare da studenti e colleghi
anche per la non comune rettitudine morale: Egli visitava i
malati, li confortava et se avevano bisogno si dava ad accattare
per loro (Castelvetro: 1903). Ed è a questo punto che
conosce quello che diverrà l’amico suo indivisibile...
il quotidiano compagno al quale rimarrà legato in vita
e in morte (Favaro: 1928).
Della
vita del Guilandino sino a quel momento non si sa molto:
nato a Königsberg intorno al 1520, figlio illegittimo
di un prete, impara giovanissimo il greco e il latino per poter
leggere le opere di botanica e di medicina degli antichi. Segnato
a dito dai suoi concittadini, capisce presto di non avere molte
chances rimanendo in Prussia e parte per l’Italia in
cerca di fortuna. Qui continua i suoi studi e si mantiene
raccogliendo e vendendo piante medicinali. Pur diventato coltissimo, non
si accontenterà mai delle descrizioni contenute nei
libri e cercherà sempre di osservare le piante
dal vivo,
compiendo a questo scopo viaggi avventurosi in Sicilia
e nel Mediterraneo orientale – dove crescevano molte delle
piante medicinali descritte dagli antichi. Giunto a Roma viene
notato dall’ambasciatore veneto Marino Cavalli, che diviene
il suo protettore e lo porta con sé a Padova, raccomandandolo
al Falloppio. Questi lo accoglie in casa sua in Contrada delle
Beccherie (l’attuale via Cesare Battisti), che era allora
il quartiere dei macellai: scelta abitativa singolare per un
chirurgo! In questa casa i nostri proto-scienziati, con alle
spalle una storia familiare non proprio edificante, cercheranno
di dare vita a una loro piccola famiglia basata sull’affetto,
sulla lealtà assoluta e sulla condivisione di tutto.
Siamo
in grado di ricostruire almeno in parte le vicende di questa
relazione grazie alla corrispondenza (quella che si è conservata)
che essi tenevano con alcuni dei maggiori naturalisti e medici
dell’epoca, o che comunque li riguardava. Queste lettere
in latino e in volgare non solo ci rivelano molto della comunità accademica
del periodo e delle sue ricerche, ma rappresentano anche una
fonte preziosa di informazioni e aneddoti sulla vita privata
dei suoi protagonisti. D’altra parte, la storia della
scienza non è fatta solo di grandi scoperte ma anche
di grandi gossip, e chiunque frequenti abitualmente un dipartimento
universitario sa che ce n’è da far impallidire
Novella 2000. Questo era ancora più vero per la nascente
botanica del Cinquecento: l’impossibilità di identificare
parecchie delle piante medicinali di cui parlavano gli antichi – e
in particolare il grande medico Dioscoride – offriva
materia di controversie interminabili, che spesso scadevano
negli insulti e nelle liti. Una disciplina apparentemente così innocua
si trasformava in una vera e propria arena in cui le reputazioni
venivano regolarmente devastate.
La
palma dell’ingiuria spetta senz’altro al botanico
irascibile (Leclerc: 1927) Pier Andrea Mattioli,
che per fare un esempio così si esprimeva sul conto di Luigi
Anguillara, primo prefetto dell’Orto Botanico di Padova: Ho
visto la coglioneria dei pareri dell’Anguillara, né mai
harei pensato che questa bestiaccia scannata fosse stato così mariolo,
ignorantissimo, invidiosissimo, malignissimo… invero
non si può tanto svilirlo e vituperarlo che non meriti
peggio (Raimondi: 1906). Insomma, tra
botanici ditelo con i fiori! Questo senese di nascita
e trentino di adozione, vanitosissimo et ambitiosissimo,
era l’autore di uno dei più grandi
successi editoriali del secolo. I suoi “Commentari a
Dioscoride”, stampati a Venezia in più di
venti edizioni, rappresentavano un manuale indispensabile
per i farmacisti e i medici dell’epoca alle prese con il riconoscimento
dei semplici – sostanze di origine vegetale, animale
e minerale utilizzate nella cura delle malattie.
In verità,
benché Mattioli fosse attento a che il merito andasse
soltanto a lui medesimo, si trattava più che altro di
un’opera corale risultato di contributi diversi: il suo
talento consisteva nel far svolgere agli altri il lavoro sul
campo, mentre lui dalla poltrona coordinava i risultati. E
infatti i botanici del Cinquecento non vedevano l’ora
di mandare a Mattioli le loro ultime scoperte, divorando ogni
nuova edizione dei “Commentari” per vedere quante
volte e in quali termini i loro nomi venivano citati. Pochi
tolleravano l’idea di rimanere esclusi o di diventare
suoi nemici e quindi pochi osavano criticarlo: poteva rovinare
i suoi detrattori semplicemente escludendoli dal libro, oppure
attaccandoli con una delle penne più maligne d’Europa.
Fatte
così le presentazioni, che una sceneggiata napoletana
avrebbe facilmente riassunto nella formula “Isso,
isso e o’malamente”, entriamo nel vivo della querelle.
Mattioli era molto amico del Falloppio, uno specchio di
diamante d’ogni virtù et d’ogni bontà… che
io sono mille volte più suo che mio (Raimondi:
1906). Mal tollerava però che dividesse la casa con
il Guilandino, la troppa intrinsechezza con uno che in Sicilia
aveva fatto
per fame il guardiano di asini. Scriveva ad un collega: Questi
barbari traditori (Guilandino era prussiano) quello
che hanno di buono lo imparano in Italia, dove vengono bestie
et se ne
partono uomini (Ferrari: 1959). Da parte sua nemmeno il
Guilandino stravedeva per questo dio dell’erbario,
come usava ironicamente definirlo (Guilandini: 1558a) e forse
non aspettava altro che
l’occasione giusta per dare fuoco alle polveri. Occasione
che non tardò a venire: a Padova cominciò a correre
voce che Guilandino avesse trovato, nella camera dell’amico,
una lettera di Mattioli indirizzata a Falloppio con il consiglio
di levar Guilandino dal mondo con il veleno (Raimondi: 1906).
Guarda caso di lì a poco fu data alle stampe dallo stesso
Guilandino un’epistola in cui denunciava numerosi errori
contenuti nei “Commentari”, con un linguaggio apertamente
irriguardoso e derisorio. E Mattioli andò ovviamente
su tutte le furie: come osava quel barbaro, malnato, sordido
e ignorante criticare un’opera monumentale come la sua,
ammirata in tutto il continente? Non era avvezzo ad essere
contestato – quanto meno non dai compiacenti professori
italiani – ma non era neanche scemo e nell’edizione
successiva dei “Commentari” fece sparire quegli
stessi errori che il barbaro malnato aveva riconosciuto. Nel
frattempo, pubblicò una violenta epistola di autodifesa
indirizzata all’amico Falloppio, non al Guilandino...
il qual non reputo degno delle mie lettere (Raimondi:
1906). Il mite chirurgo, che si sforzava di rimanere equidistante,
si dolse privatamente con il senese per il linguaggio oltraggioso
usato dal Guilandino, ma non arrivò a strapparsi i capelli.
In compenso il prussiano, incurante delle raccomandazioni di
Falloppio, rincarò la dose e pubblicò una Apologia
contro Mattioli che già dal motto di apertura ci
dà un’idea
dello stile. Riferendosi alla credenza allora molto comune
sul potere delle foglie di frassino contro il morso delle serpi,
apriva le danze con un Dalla Prussia è nato il frassino,
dalla Toscana la vipera! (Guilandino: 1558b, traduz. mdi
Michele Visentin) Continuava poi con apprezzamenti del tipo: quel
letamaio, l’edizione
del 1554... quello schifo rappezzato, ogni volta ritoccato,
mai completato, che egli chiama un commentario a Dioscoride.
E finiva in bellezza con un’accusa di plagio: chi è più avido
di lui nel copiare le idee degli altri?
A
essere onesti, non erano tutte accuse campate in aria: più i “Commentari” crescevano
di edizione in edizione e più il lavoro di copia-incolla
del Mattioli risultava inadeguato. La stessa appropriazione
delle scoperte altrui — come quelle del grande ma “poco
ambizioso” Andrea Cesalpino — era sotto gli occhi
di tutti. Rimaneva però il fatto che il divino Mattioli,
divenuto nel frattempo medico alla Corte Asburgica, quasi sessantenne
era stato ingiuriato da un giovane poco più che laureato.
Egli non tardò quindi ad intingere la sua penna nell’aceto,
scrivendo al Falloppio una lettera in cui l’accusava
di fare il gioco di quel tristo malnato d’un prete e
di una p… (crede forse egli che io non sappia la
sua sporca genealogia?) (Raimondi: 1903). Accusa ingiusta e immotivata
secondo i contemporanei, ma ribadita con fermezza: non
potrò credere
altrimenti se non che voi siate stato la balestra et egli il
bolzone. E incalzava, non pensate però che io molto
me curi delle villanie di questa puzzolente et stomachosa bestia;
perché né egli, né la p… di sua
madre, né quel cornuto di suo padre, con tutta la sporchissima
progenie loro, saranno mai bastanti a inscurire una minima
particella del buon nome et della chiarezza del Matthioli...
perché a simil bestie non si risponde se non con il
suono di buone bastonate fino che le cervella insieme con l’intelletto
caschino loro in bocca. Stavolta, di fronte a simili argomenti,
Falloppio non si lasciò commuovere dalla sfuriata e
si chiuse in un dignitoso silenzio, che ovviamente sortì l’effetto
di inferocire ancor di più Mattioli. Questi, non potendo
attaccarlo sul piano scientifico e professionale, cominciò a
diffondere ghiotti dettagli sulla sua vita privata, come per
scusarlo: imperò che ama forse più i vitii (vizi)
del suo Guilandino, et la galanteria di così gentile
hermafrodito, che la verità et le virtù mie...
(Raimondi: 1906). Del resto, Falloppio era un bersaglio facile:
non frequentava donne e ogni tanto a lezione gli scappava qualche
frecciatina sulle loro lacrime facili e le loro idee superstiziose — tanto è bastato
ad alcuni suoi biografi per farne un misogino incallito e dare
addirittura una spiegazione “scientifica” alla
sua condotta, cadendo dal pero di fronte all’evidenza:
Né può escludersi che le tendenze misogine da
lui manifestate avessero alla base una ipoplasia degli organi
genitali... (Favaro: 1928). Ah, la psychologie!
Intanto
la tempesta era scoppiata ed ora si trattava di evitare ogni
ulteriore scandalo, anche perché c’era sempre
un inquisitore dietro l’angolo pronto a dare il suo contributo.
Falloppio, non senza sofferenza, consigliò al Guilandino
di partire per l’Oriente e gli diede del denaro: Dio
faccia – dice ai suoi studenti – che l’astuto
e sottile Guilandinus, che ha ora cominciato il suo viaggio
per le Indie Orientali, torni a casa sano e salvo (Falloppio:
1606). Prima di partire, l’amico gli diede in consegna
le sue carte e lo pregò di bruciare tutto se non fosse
ritornato entro otto anni. Mattioli dal canto suo sembrava
appagato, ... si può credere che essendo questo manigoldo
in disgrazia di Iddio per le sue porcherie, (Dio) l’abbi
indotto a fare il viaggio de Costantinopoli per punirlo con
un palo come merita un tale sordido hermafrodito delle sue
scellerataggini (Raimondi: 1903). In realtà userà tutta
la sua influenza per far venir meno al Guilandino la protezione
dell’ambasciatore veneto a Costantinopoli: impresa che
forse alla lunga gli riuscì, visto che dopo un paio
d’anni il nostro prussiano venne rapito dai pirati algerini.
Perse così non solo la libertà, ma tutto il materiale
pazientemente raccolto nel corso del suo viaggio di studio
attraverso la Turchia, il Medio Oriente e l’Egitto. Incatenato
ai remi delle navi corsare aveva deposto ormai ogni speranza
quando, non sappiamo con quale stratagemma, gli riuscì di
far recapitare a Falloppio una lettera sulle sue condizioni.
Questi, seppur molto indebolito dalla malattia, mise insieme
200 scudi d’oro, mollò tutto e alla fine del 1560
partì alla volta della Grecia dove consegnò il
denaro per riscattare l’amico. Ma i colpi di scena non
finiscono qui: la nave che portava a casa il Guilandino fece
naufragio ed egli riuscì per un pelo a mettersi in salvo
raggiungendo a nuoto le coste dell’Africa, legato a una
tavola, ignudo e sfinito (De Toni: 1911b). Tornato a Venezia
grazie all’aiuto di navi genovesi poté finalmente
riabbracciare Falloppio, ma gli rimase l’amaro in bocca
per aver perso tutti i suoi appunti e i suoi campioni. In una
lettera al grande Aldrovandi dice di essere tornato in Europa
malato nell’animo, in quanto non volendo scrivere
cosa alcuna che non avessi veduto con li miei occhi, ebbe la sfortuna
di perdere tutte le sue scritture ... e sono rimasto con
le mani piene di vento; e quello che più mi dole, un bellissimo
goffo: percioché dove io credeva di fare benefitio alli
viventi, ho fatto malefitio a me medesimo, e poco, anzi nullo
benefitio ad alcuno (Ferrari: 1959). Dopo averlo salvato dai
pirati, Falloppio provvederà a salvarlo anche dalla
depressione con un colpo da maestro. L’allora prefetto
dell’Orto Botanico Luigi Anguillara era un naturalista
valente ma le sue capacità organizzative lasciavano
un po’ a desiderare, tanto che la Repubblica veneta l’aveva
messo sotto tutela. A Falloppio venne l’idea di scrivere
una lettera ad Alfonso II d’Este, duca di Ferrara e suo
carissimo amico (in passato gli aveva curato la sorella Eleonora
e il favorito Ercole Zanelli, ferito in un torneo). Questa
lettera era piena di lodi sperticate nei confronti dell’Anguillara,
ma scritta più che altro al lodevole scopo di levarselo
di torno. Il Duca non si fece pregare e offrì all’Anguillara
un posto di professore a Ferrara, che questi accettò immediatamente
visto che lo stipendio era maggiore e lui aveva undici boche
in su le spalle (De Toni: 1910-11). Melchiorre Guilandino
diventa così il secondo prefetto dell’Orto Botanico di
Padova (1561) e più tardi sarebbe stato chiamato a ricoprire
anche la cattedra di Botanica. Tutti felici e contenti, dunque.
Senonché il povero Falloppio, il “candidus
vir” come
l’avevano soprannominato, sempre più indebolito
dalla troppa dedizione al lavoro e dall’insidiosa malattia
che aveva ereditato dal padre, cominciò a dare segni
di cedimento. Scriveva all’Aldrovandi, Specchiatevi
in me, il quale ero tutto fuoco e dalla fatica sono ridotto
a
mal termine, in guisa che se voglio star sano mi conviene mangiare
una volta sola il giorno et non esser huomo quasi et con stento
ancor mi mantengo (De Toni: 1911a). Tempo un anno e la maledizione
della faloppa avrebbe colpito ancora: lasciava questo mondo
a trentanove anni, rimpianto da tutti ma soprattutto dal suo
Guilandino, disperato perché vedeva sfasciarsi con la
morte dell’amico la minuscola famiglia che avevano insieme
costituita (Favaro: 1928). Sulla tomba del compagno, eretta
in Sant’Antonio nel Chiostro del Capitolo, il prussiano
fece scrivere:
FALLOPPIO, IN QUESTA TOMBA NON VERRAI SEPOLTO DA SOLO
CON TE VIENE SEPOLTA ANCHE LA NOSTRA CASA (Favaro: 1928, traduz.
di Michele Visentin).
I
due sopravvissuti della nostra querelle, Mattioli e Guilandino,
non ebbero più occasione di incrociare le spade: il
primo si era ormai trasferito a Praga, dove risiedeva la Corte
degli Asburgo, e non faceva più caso alle sempre più rare
punzecchiature del rivale. In fondo le critiche del “barbaro
borusso” gli avevano procurato una grande pubblicità ed
erano servite a correggere numerosi paragrafi dei suoi scritti.
Da parte sua, Guilandino cominciò a utilizzare i “Commentari” sia
come base per il nuovo allestimento dell’Orto botanico,
sia come libro di testo per l’insegnamento. C’era
bisogno di fare tutta quella caciara?
Sotto
la direzione di Guilandino l’Orto padovano divenne
celebre in tutt’Europa per ricchezza e varietà di
piante. In particolare, vi fece piantare due specie allora
completamente sconosciute in Italia: il girasole (Heliantus
annuus) e il lillà (Syringa vulgaris). E se non fosse
contrario alle più elementari regole della filologia
e del decoro, giureremmo che non si sia trattato di una scelta
casuale: il viaggiatore energico e spavaldo e lo studioso delicato
e generoso... Teneva nella sua casa un ritratto dell’amico,
sotto al quale aveva fatto scrivere: “Salve Falloppio,
il più grande tra i medici della Scuola padovana” (Favaro:
1928). Amato e stimato finché visse, venne anch’egli
sepolto nel chiostro del Capitolo accanto a Falloppio.
Anche
le storie vere, talvolta, possono finire con un coup
de thèatre: la nostra è una di queste. Nel Settecento
venne demolita la tomba di Falloppio, per aprire una porta
sul chiostro, e le sue ossa vennero deposte nella tomba del
Guilandino da un “ignoto pietoso”. Sulla lapide
che in quel punto è stata posta all’inizio del
Novecento, per interessamento dell’allora prefetto dell’Orto
Botanico Andrea Saccardo, leggiamo:
QUI
FURONO SEPOLTE LE OSSA DI GABRIELE FALLOPPIO E MELCHIORRE
GUILANDINO / L’ORTO PADOVANO MEMORE E GRATO DAVANTI A
UOMINI COSI’ GRANDI (traduz. di Michele Visentin).
Chissà se i milioni di pellegrini che accorrono da
ogni parte del mondo per una grazia avranno mai notato questa
lastra di marmo: ex-voto postumo di un miracolo d’amore
che nonostante tutto continua a ripetersi.
(www.totalgay.it/blog.php?b=41)