Ginkgo biloba



a cura di
Ugo Laneri (*)
14 giugno 2018

 

Considerazioni sulle piante femminili e non solo

Il Ginco, Ginkgo biloba L., fin dal momento della sua scoperta è stato oggetto di curiosità botanica e di venerazione, oltre che di uso ornamentale, alimentare (i semi tostati vengono mangiati ed apprezzati) ed erboristico (per la presenza di sostanze che agiscono sul microcircolo - e forse anche sui processi cognitivi - e contro i radicali liberi).
Albero senza particolari esigenze di terreno, può raggiungere i 40 m di altezza ed un’età plurimillenaria; in autunno le sue foglie ingialliscono prima di cadere e rendono la pianta spettacolare.

È considerato uno dei primi alberi, una Gimnosperma(1), gruppo che comprende le conifere, ampiamente diffuse dopo il dominio delle felci arboree (cosiddette per la loro grandezza) nel Carbonifero, intorno a 330 milioni di anni fa, nell’era Paleozoica. Dallo studio dei fossili risulta che varie specie della famiglia Ginkgoaceae erano molto comuni nel Triassico (circa 250 milioni di anni fa, nell’era Mesozoica), ma oggi esiste solo un’unica specie del genere Ginkgo, anzi di tutta la famiglia.

Trovato in Cina nel XVIII secolo, il ginco era ritenuto estinto, ma si conoscevano suoi fossili, con foglie praticamente identiche alle attuali, risalenti a ca. 100 milioni di anni fa o più. È molto raro trovare specie che abbiano mantenuto la stessa forma e, si suppone, la stessa fisiologia per un periodo di tempo così lungo. Altri “fossili viventi” sono Agathis, Araucaria araucana, Cycas, Metasequoia glyptostroboides, Sciadopitys, Taiwania cryptomerioides, Welwitschia, Wollemia.

Nel ginco diversi sono i caratteri di primitività: la nervatura dicotomica delle foglie, simile a quella del capelvenere (una felce); la formazione di anterozoidi(2) mossi da ciglia (in necessaria presenza di un velo acquoso) e non di microspore (polline); la presenza di macrospore, ovvero ovuli nudi cioè non protetti da un ovario, che possono raggiungere i 2 cm. Questi ovuli trovano un parallelismo nei gameti femminili degli animali meno evoluti (serpenti e uccelli) che formano uova più o meno grandi; poi, con l’evoluzione, vi è stata una loro graduale miniaturizzazione, fino ad arrivare ad ovuli microscopici sia nelle piante “superiori” (angiosperme o Magnoliophytae), che nei mammiferi. Ciò per evitare un dispendio energetico inutile, nel caso non avvenga la fecondazione.

Un altro carattere considerato primitivo è il dioicismo, cioè l’esistenza di piante a sessi separati: certi individui formano gameti “maschili” (così considerati in quanto cellule mobili), altri invece hanno strutture riproduttive “femminili” (in quanto immobili), cioè l’ovulo e la oosfera (il gamete femminile che sarà fecondato). La condizione dioica è una particolarità che si trova solo in circa il 5% delle specie vegetali superiori.

Tra le più note specie dioiche, cioè con individui “maschili” (produttori di polline, che racchiude il gamete maschile, ridotto al solo nucleo spermatico aploide) e “femminili”, cioè portatori di ovuli (che una volta fecondati formeranno frutti), troviamo l’agrifoglio, l’actinidia, il tasso ed il diffuso alloro.

Altre piante dioiche quali le Cycas, il tasso e lo stesso ginco non formano frutti, essendo prive di ovario, ma solo semi, talvolta avvolti da una polpa (come accade nel tasso e nel ginco), tanto da somigliare a piccoli frutti.

I semi del ginco (prodotti dalle piante femminili adulte), quando cadono a terra, sono ricoperti appunto da un involucro carnoso, formante uno pseudofrutto che, secondo alcuni, avrebbe la funzione di essere mangiato dagli animali per la dispersione della specie. Io propongo un’altra ipotesi: premesso che gli pseudofrutti caduti da poco o contengono un embrione non ancora maturo oppure non sono stati affatto fecondati (vedi più sotto il loro destino), secondo me essi devono emanare un forte fetore, cioè essere repellenti per gli animali, finché non si completi l’embriogenesi e la maturazione del seme (ci vuole fino a un paio di mesi); ciò per evitare di essere mangiati prima del tempo e consentire solo allora la dispersione di semi maturi fertili. Quindi gli pseudofrutti sono carnosi non per essere mangiati, ma per altro motivo. È da notare che a carico della polpa esterna avviene una fermentazione, responsabile appunto della produzione di sostanze maleodoranti (3) (tra cui gli acidi butirrico e caprilico); secondo me, essa ha anche lo scopo di assicurare una temperatura relativamente mite al seme in maturazione, anche se il clima diventa fresco, e permettere così un regolare sviluppo embrionale.

Ciò è in accordo con quanto si raccomanda per far germinare i loro semi: serve un soggiorno, sotto pacciamatura per evitare la disidratazione, a una temperatura di ca. 20°C. Poi deve seguire un periodo di “vernalizzazione” in frigo, o l’esposizione al normale clima invernale.

Recentemente ho avuto un’altra informazione preziosa dal botanico, professor Fernando Tammaro: gli ovuli non fecondati spesso vanno incontro a partenogenesi, cioè producono anch’essi semi che però daranno origine solo a piante femminili.

Si potrebbe qui speculare su come mai il ginco non si sia ulteriormente evoluto; evidentemente non vi sono state spinte evolutive abbastanza forti, ma è da notare che esso aveva già raggiunto un alto grado di evoluzione per poter sopravvivere: infatti è fornito di un buon arsenale di sostanze chimiche, che gli assicurano una buona resistenza sia a parassiti animali sia a microrganismi. Inoltre sopporta bene l’inquinamento atmosferico e anche dosi elevate di radiazioni ionizzanti (6 esemplari, distanti 1-2 km dal punto in cui cadde la bomba atomica a Hiroshima nel 1945, vivono ancora).

Ultima considerazione sulle foglie di ginco e sull’attributo specifico “biloba”, conseguente ad osservazioni effettuate nel tempo su diversi individui: siamo di fronte ad un caso di eterofillia temporale (di fase). Solo le foglie delle piante giovani e talvolta di rami giovani sono bilobate, mentre le foglie di piante adulte generalmente sono a ventaglio e non bilobate. È da notare che le piante di ginco ottenute da seme da Linneo, quando costui ha denominato la specie, erano giovani e quindi con foglie bilobate.

Infine, può darsi che il momento della caduta delle foglie, a parità di altri fattori, dipenda dal sesso o da altra caratteristica genetica: a novembre 2017 ho visto a Roma in Villa Doria Pamphilj due ginco vicini: uno ancora tutto verde, senza pseudofrutti e quindi verosimilmente maschile, mentre l’altro, pieno di pseudofrutti e quindi femminile, aveva tutte le foglie giallo dorate.

 

 

nn.d.a.
(1) Piante più antiche, a semi “nudi”, cioè non coperti da tessuti dell’ovario; ma secondo alcuni botanici il ginco va collocato in una divisione a parte, quella delle Ginkgophytae
(2) Gameti maschili mobili di piante primitive come felci ed equiseti
(3) Perciò nei giardini o nei viali si preferisce piantare individui maschili di ginco, ottenuti tramite propagazione vegetativa, generalmente mediante margotta


 

(*)
Biologo vegetale, ricercatore ENEA,
Presidente dell'AssAgir, Associazione Amici dei Giardini Romani