IPPOLITO DEI FIORI
ricordo di Pizzetti

di Francesca Caotorta ( Sole 24 ore, 19 agosto 2007)

 

Ciao Ippolito e grazie. Grazie a te, che ci hai raccontato che le piante sono parole. E non le parole degli altri, ma della vita di ognuno di noi. Parole che hai insegnato a saper conoscere nel fruscio di ogni sillaba, per poterne valutare la voce, che varia a seconda di come le accosti tra loro: del racconto che ne fai. Parole per imparare a scrivere lo sguardo, ché quello è il principio di ogni relazione e quindi di ogni giardino. Parole con cui hai insegnato a comporre storie, in tempi in cui le parole-piante, parevano essere adoperate tutt'al più come interiezioni. Parole del racconto della vita di tutti i giorni qual è quella che ognuno di noi conosce: senza esclusione di aggettivi e prima di ogni giudizio.

Ippolito Pizzetti, che detestava l'estate, è morto il giorno di ferragosto quando la «città è vuota» quando «il vento estivo pomeridiano mi scompiglia e asciuga le foglie delle Ipomee, si beve tutta l'acqua, soffia e fischia come un felino in sogno», «quando i canarini se ne stanno zitti; non cantano più i merli; non l'usignolo. Gli unici che rimangono sono i cani, i cani eterni, i cani stigi, l'allocco, la civetta». «Io non so perché, - si chiedeva - l'estate mi uccide: perché sotto il Leone tutto è fermo e nulla muta», tanto che nell'unica preghiera mai formulata, chiedeva: «Ma ti prego, Agosto, un altro anno non tornare, vattene-emigra lontano, vola in Grecia».
E’ morto - e non è mancato, e non si è spento, che sono parole che non avrebbe mai usato per se stesso - avendo vicino Andreola e Oliva, figure continuamente evocate nella lunga elegia che fu la sua vita. Una vita in cui le sue donne, i suoi amici, la sua casa, i suoi tantissimi gatti, i suoi cani - e in particolare Notte - diventavano le parole proprie delle molte edizioni di una sola autobiografia.
Tutto passa attraverso il suo vaglio. L'opera è lui. Benché affermasse che scrivere gli desse meno soddisfazioni e meno piacere del fare un giardino, senza il suo essere così vero scrittore, senza la sua capacità di scrittore e di poeta di connettere e di porgerti ogni cosa inerente al mondo delle piante, degli animali, dei giardini, del paesaggio come lettera diretta al tuo cuore, alla tua mente, alla tua pelle, al tuo consenso, alla tua ribellione, nel nostro Paese saremmo ancora lontani dalle scelte delle categorie estetiche da attribuire alla fisionomia dello spazio esterno dell'abitare.
Non saremmo stati indotti a dare valore al molto vicino, né curiosità per l'ignoto, l'altro, lo sconosciuto, il differente o il molto più colto. Tra gli utensili usati da Ippolito per addestrarci, c'è innanzitutto la rubrica «Pollice verde», tenuta per anni all'Espresso. Poi la pubblicazione del Libro dei fiori, quella di Piccoli giardini, tutto il sapere raccolto nella collana «L'ornitorinco» da lui diretta per Rizzoli, gli autori pubblicati nella collana «il corvo e la colomba» per Muzio editore, e i più recenti 'Robinson in città', la garzantina 'Fiori e giardino'. Molto di sé ha dato come docente nelle Università di Venezia, Ferrara, Roma, in cui metteva a disposizione la sua esperienza di paesaggista che aveva collaborato con Quaroni, Valle, Gregotti e via dicendo. Ma più che alla sua opera, si voleva bene a lui. Direbbe Pellegrina.