PRENDI
DALLA NATURA TUTTI I COLORI
di Pia Pera - Fotografia di Mario De Biasi
(da Natural Style, gennaio 2005)
Con quanti sguardi diversi possiamo perlustrare un giardino!
Quasi tutti cercano i fiori, alcuni l'ombra, oppure un bel punto
assolato, i contemplativi si fermeranno davanti a uno scorcio
piacevole, i più pratici e accorti andranno per erbe
oppure direttamente nell'orto, i golosi a rimpinzarsi nel frutteto.
Pochissimi si fermeranno soddisfatti davanti a un getto lucido
e appiccicoso di robbia o a un folto cespuglio di artemisia:
terribili infestanti agli occhi dei giardinieri comuni, un dono
di Dio per chi, in giardino, cerca la materia prima per colorare
fibre di lino, lana, cotone e quant'altro in certi meravigliosi
colori perduti.
La
mia scoperta delle piante tintorie è avvenuta in una
torrenziale giornata di maggio, nei giardini milanesi di via
Palestro, dove era in corso Orticola, la mostra
annuale di piante. Mi aggiravo felice come un'anatra nello stagno,
quando il mio sguardo è rimasto folgorato da una chiazza
di lucentissimo azzurro messa in risalto da un nuvolone gonfio
e nero di pioggia. Avevo davanti l'azzurro purissimo di Piero
della Francesca. Accanto, altre stoffe in colori che conoscevo
solo dal restauro della Cappella Sistina, per terra tanti vasetti
di piantine non tutte attraenti, molte addirittura delle vere
e proprie erbacce che non era mai capitato di vedere esposte.
Così mi sono fermata allo stand della Associazione
Tintura Naturale Maria Elda Salice, e fra una chiacchiera
e l'altra ho deciso di partecipare a un seminario tenuto in
uno dei luoghi più belli d'Italia, il Parco Naturale
del Gran Sasso. Dove ho imparato un nuovo modo di attingere
alle ricchezze del mondo vegetale. In una cristallina giornata
di sole, sulle dolci colline sovrastate da Rocca Calascio, fatato
castello costruito con la pietra roseo-dorata del monte cui
è abbarbicato, il gruppo di apprendisti tintori si è
disperso a caccia del singolare tesoro da cui sarebbero poi
stati estratti i pigmenti: cortecce, radici, bacche, foglie
oppure fiori - la cosiddetta "parte aerea" - di erbe,
alberi e arbusti.
Il rapporto fra pigmenti vegetali e tinte ottenuto non è
sempre ovvio, anzi: dal verde equiseto (Equisetum telmateja)
si ottiene un incredibile rosa antico, come dal ginestrino (Osyris
alba), le fronde grigio-verde della ruta (Ruta graveolens)
si tramutano in un luminoso color luce, le foglie del faggio
danno coloriture dall'aranciato al rosa fegato, quelle del salice
(Salix caprea) un nocciola caldissimo, il giallo iperico
(Hypericum perforatum) si converte in un imprevedibile
terra di Siena bruciata, i fiori dell'achillea (Achillea
setacea) in un allegro senape chiaro. I petali del papavero
(Papaver rhoeas) trascolorano dal vermiglio in un grigio
violaceo di squisita eleganza.
Si tratta di colori talmente inusuali, da renderne ardua la
descrizione. Certo non si tratta di tinte comuni. Una delle
più belle - ma qui non si può essere altro che
soggettivi! - è il color miele di castagno prodotto dalla
radice fresca del ginepro (Juniperus communis). Le foglie
fresche del noce (Juglans regia) danno un giallo ottone
patinato, mentre il mallo delle noci il caldo marrone tipico
dell'abito dei monaci itineranti, che nelle giornate d'autunno
giravano le campagne raccogliendo noci, con cui evidentemente
tingevano i panni oltre che nutrirsene. Dal mallo delle mandorle
si ottiene invece un prezioso rosa cipria. C'è poi quella
che nei giardini toscani è considerata una terribile
infestante: una pianticella dal fusto appiccicoso a sezione
quadrata, le foglioline lanceolate raggruppate in verticilli
di cinque o sei, e le radici di un vivido giallo: è la
Rubia peregrina, volgarmente robbia, la pianta che ha
dato il nome a tutta una stirpe di artisti fiorentini. Un tempo,
d'autunno, le donne raccoglievano le radici di robbia e, dopo
averle lavate e battute, le vendevano pronte per la tintura.
Mentre,
sull'altopiano del Gran Sasso, noi corsisti raccoglievamo i
materiali, Rossella Ciliano, nostra maestra all'aria
aperta, raccontava tante cose che aiutavano a recuperare il
significato di un mondo vegetale oggi dimenticato, ma con cui
un tempo si aveva grande dimestichezza perché da lì
si attingeva per soddisfare il bisogno di colore. Visto che
le stoffe venivano tinte localmente, il legame col territorio
era molto stretto: in certi posti certi colori non erano usati
perché mancavano le piante da cui estrarli, e così
l'uso di certe tinte finiva col distinguere una popolazione
dall'altra; anche i colori delle bandiere erano connessi alle
caratteristiche della vegetazione del luogo, oltre che al simbolismo
dei colori. Quante cose a cui non avevo mai pensato, mentre
mi aggiravo fra euforbie, cisti, papaveri, cespugli di lavanda,
di Daphne gnidium e di alaterno.
Tingere è divertente e non richiede attrezzature o sforzi
particolari. Bastano un fornello, una pentola, dell'acqua corrente
e dell'allume. La raccolta è stata solo la necessaria
premessa del lavoro tintorio vero e proprio, iniziato con l'estrazione
del pigmento in contemporanea con la preparazione dei tessuti
alla tintura. È una procedura lunga e complessa, ma di
indubbia efficacia. Le piante, o meglio, le parti che ne sono
state raccolte, vanno lasciate macerare in acqua per una notte
e poi decotte per estrarne il pigmento. I pigmenti naturali
sono molto sensibili alla luce, all'ossidazione, alle variazioni
di pH e al calore, quindi piuttosto instabili, cosa che rende
non del tutto prevedibili i risultati del loro utilizzo. In
simultanea con l'estrazione dei pigmenti, occorre preparare
le fibre tessili all'assorbimento del colore, bagnandole e lasciandole
bollire per spurgarle di sostanze grasse che ostacolerebbero
la penetrazione del pigmento, e lasciarle bollire ancora un'ora
in acqua cui è stato aggiunto allume, sostanza che serve
a mantenere inalterate le caratteristiche cromatiche del pigmento.
A questo punto la fibra tessile o la stoffa sono pronti per
il bagno di colore, che avviene a una temperatura fra i 50°
e i 90° e dura un'oretta. Durante il bagno di colore occorre
mescolare di tanto in tanto, come pure durante il raffreddamento.
Dopodiché il tessuto viene sciacquato a più riprese
per eliminare il pigmento in eccesso, e steso ad asciugare all'ombra.
I
risultati del procedimento di tintura varieranno a seconda delle
quantità di pigmento e di acqua utilizzati rispetto alla
massa di fibra tessile, ma anche a seconda della stagione, della
natura acida o basica dell'acqua, della caratteristica della
stoffa. Con uno stesso pigmento, poi, i risultati cambiano in
modo anche considerevole a seconda che le fibre trattate siano
di origine vegetale - per esempio lino e cotone - oppure animale
come la lana. Per avere la certezza del risultato è necessaria
una grandissima esperienza, se però ci accontentiamo
di seguire l'affascinante metamorfosi delle piante in pigmenti
insospettati, e se magari abbiamo anche voglia di sperimentare
con bagni successivi di colore, potremo attingere liberamente
a quanto ci offrono il nostro giardino e l'aperta campagna,
traducendolo in un colore mai visto magari per una vecchia camicetta
bianca, per dei tovaglioli, per la biancheria intima...
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SCAFFALE
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Per
erbe e per tinture in Sardegna
Colori e tradizioni ad Atzara, 2003
Le
piante tintorie, 2003
Entrambi
pubblicati dalla "Associazione Tintura Naturale
Maria Elda Salice", via Gallarate 49, 20151 Milano
Tel. 02.33000611, Cell. 347 7957198 ass.salice@tiscalinet.it
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