PRIMA CHE SUL LETTINO SDRAIATEVI IN GIARDINO

Da "Il Sole 24 Ore" del 7 gennaio 2001
di Francesca Marzotto Caotorta


Amati o sognati, riflettono la nostra personalità: così sostiene Duccio Demetrio in un libro che è anche itinerario artistico e poetico.

E' un acchiappa sguardo, il libro dalla copertina efficace e dal titolo furbacchione che in questi giorni viene esposto in tante vetrine di libraio: Di che giardino sei? Conoscersi attraverso un simbolo scritto da Duccio Demetrio professore di pedagogia generale e di educazione degli adulti all'Università degli Studi Bicocca di Milano (ed. Meltemi pagg. 144, L. 45mila). È questo un titolo che ammicca al passante, indipendentemente dal fatto che sia giardiniere o meno, indipendentemente dal fatto che conosca il mondo o la storia dei giardini: tanto, ci dirà l'autore, una qualche forma di giardino è comunque nella nostra mente, vuoi sotto forma simbolica, vuoi come esperienza infantile. Così la parola giardino viene catturata e usata secondo l'esperienza dell'autore stesso ai fini propri della sua stessa professione, ovvero la pedagogia, riprendendo suggestioni che furono già di J.J. Rousseau e di F. Fröbel, fondatore nel 1837 del "giardino d'infanzia".

Il giardiniere professionista, comunque contento che la parola giardino si espanda in più direzioni anche nel nostro Paese ancora infante rispetto ai canoni nord europei di legami adulti con Madre Natura, sfoglia curioso il libro illustrato con immagini del repertorio della storia dell'arte dei giardini e della pittura. Di pagina in pagina, si fa catturare da un gioco di regole che in parte conosce e in parte gli sfuggono. Nell'introduzione apprende che il libro è dedicato soprattutto al piacere d'imparare l'arte del racconto autobiografico a partire dalle memorie di un giardino posseduto o mai conosciuto. È un invito a scrivere dei nostri giardini della memoria o del presente aiutandoci con le immagini del testo lungo le tappe della cultura umana per poter meglio esprimere i nostri pensieri. Così si ritrovano immagini fondanti la nostra storia occidentale, come quelle del giardino da cui siamo stati cacciati al primo anelito di autonomia e conoscenza. Poi ci sono i luoghi resi sacri dagli dei - molto umanizzati - che vi avevamo posto. Col tempo siamo stati noi a cacciare gli dei da quegli stessi luoghi. Però ne abbiamo avuto presto nostalgia e così abbiamo iniziato a coltivare i loro giardini incolti e abbandonati, a costruire fontane, alberi e voliere per farli tornare e per ascoltare storie che non ci spaventavano più. E questa potrebbe essere la forma più succinta possibile per riassumere l'immagine originaria del nostro giardino interiore secondo una tradizione giudaico-pagano-cristiana.

Ne deriva così la descrizione di luogo da cui essere cacciati, luogo da riconquistare, luogo da cui scacciare: in ogni caso luogo di dolore subito o inferto, nel quale peraltro si svolge l'azione dell'accudimento, dell'osservazione e accettazione dei ritmi naturali. Secondo la tradizione mussulmana, a noi anche molto vicina, il giardino è il premio ultimo, quello che non ci verrà mai tolto perché presagio d'immortalità. Mentre ciò che è condiviso in ogni parte del mondo è il fatto che nel giardino accadano cose che negli altri luoghi non si verificano. Chi poi avesse avuto l'immensa fortuna di crescere in un giardino vero, riconoscerebbe anche di aver imparato, nel modo più amabile, a distinguere il senso del limite e del divieto, dell'impazienza e della frettolosità, della casualità e del progetto, dell'imponderabile e del possibile. E questa potrebbe essere una constatazione di partenza con la quale seguire l'autore nella descrizione di una sua idea di giardino sostenuta da testi classici, da brani di poeti e letterati contemporanei con la quale possiamo essere più meno in sintonia, soprattutto quando le osservazioni si confondono con il giudizio personale. Così come lo stabilire che il giardino sia di per sé "luogo di cura, di lenimento dinanzi a un ritrovato piacere per un equilibrato rapporto con un poco di natura" e pertanto chi esercita con particolare evidenza qualche "follia" giardinieresca come potrebbe essere qualche espressione di arte topiaria, sarà certamente ispirato da un'altrove frustata vocazione al potere. Temo difficile immaginare il Re Sole o il Cardinal Gambara che percorrono i giardini di Versailles o di Bagnaia per un equilibrato rapporto con un po' di natura. Eppure sono due capolavori. E chi conosce l'ironia e la pazienza di scultori di baci tra gigantesche colombe di ligustro, non riesce a vedere in loro dei tiranni frustrati anche se, per la connaturata afasia del materiale vegetale, ogni giardiniere tende, senz'altro, a una certa prepotenza. Oppure, potrebbe non essere del tutto condivisibile l'affermazione che noi mediterranei amiamo il nostro giardino perché ci ricorda la nostra sorte: quella per cui tutto svanirà.

Ma affermazioni tanto apodittiche potrebbero far già parte del gioco nel quale il pedagogo ci ha introdotto senza che ce ne rendessimo conto, con esempi capaci di suscitare reazioni tali da raccontare anche per contrapposizione il nostro giardino o, più probabilmente, i molti giardini della nostra vita, nella quale i giardini vissuti si confondono con quelli visti, conosciuti o solo desiderati. Forse, soltanto a un certo punto della vita si riesce a raccontare di fratelli vestiti di bianco che accendono lanterne tra i gigli più grandi di loro come quelli dipinti da Sargent. E questo perché, per molto tempo, il giardino riportava solo il ricordo di luogo della cognizione della noia mortale, del caldo che sfianca, del guardarsi per ore ogni pellicina tra le dita dei piedi: mangiamo una mela caduta, finché tutti dormono; oppure: Gesù non ti voglio più bene se non mi fai acchiappare nemmeno questa farfalla. Nel chiudere il libro, dopo aver scorso la descrizione dei giardini tipo, che secondo l'autore dovrebbero suscitare la nostra capacità di raccontare di noi, siamo sempre più convinti che il giardino è innanzitutto un'idea, che come l'amore ha innumerevoli aspetti non sempre condivisibili e che ognuno manifesta a modo suo. Ma quell'idea tanto feconda va comunque tutelata. E, perché no, raccontata a modo nostro, fermandoci però un attimo prima di scoprire che il giardino, dopotutto, siamo noi.